Image result for don Divo Barsotti

terça-feira, 26 de maio de 2020

Meditazioni di don Divo Barsotti sulla Solennità di Pentecoste


Meditazioni sulla Pentecoste di don Divo Barsotti

Risalgono già a un pò di anni fa ma sono attualissime le parole profetiche di don Divo Barsotti, un grande mistico, maestro della vita di preghiera. Le meditazioni che seguono sono il frutto della viva predicazione di don Divo in vari ritiri fatti nella Solennità della Pentecoste, che celebreremo domani.

Meditazioni di don Divo Barsotti sulla

Solennità di Pentecoste



Dal ritiro del 5-6 giugno 1965 a Casa san Sergio
Prima Meditazione
Pentecoste, l'unità
Prima di tutto vorrei sottolineare la presenza qui in mezzo a noi di tanti che rappresentano un poco tutta la Comunità. […] Come è bello vivere insieme questa solennità che è una delle grandi solennità della Chiesa e dovrebbe essere una delle nostre grandi solennità. Noi non possiamo vivere insieme la festa del Natale, né la festa della Pasqua; le famiglie ci reclamano ed anch'esse hanno diritto a una nostra presenza in quei giorni. Bello sarebbe, dunque, se noi potessimo vivere insieme la festa della Pentecoste e fare della Pentecoste una delle nostre grandi feste, la festa anzi in cui dovremmo realizzare di più la nostra unità. Nessun altro giorno più di questo è adatto a una celebrazione comunitaria.
È in questo giorno che, si dice, è nata la Chiesa. Forse questa espressione non è del tutto esatta, ma comunque si può accettare anche un'espressione di questo genere. È certo che è nello Spirito Santo che tutta quanta l'umanità diviene il Corpo di Cristo, diviene la Chiesa, corpo di Cristo, cioè è per lo Spirito Santo che uomini di tutte le razze divengono un solo Cristo. Così, ancora, è per opera di questo medesimo Spirito che deve nascere giorno per giorno la Comunità.
Niente dunque di strano che noi sentiamo in modo particolarissimo l'esigenza di celebrare questa festività come un rinnovamento vero e profondo della Comunità intera, come una nuova nascita, per noi singolarmente e per la Comunità in generale. Per noi singolarmente perché non siamo altro che delle ossa aride che è dallo Spirito di Dio che debbono riacquistare il potere di stare in piedi, di avere nuova vita. Anche per la Comunità, perché non potrà vivere veramente se tutti noi, donandoci allo Spirito, non diverremo un'anima sola e un cuore solo. Ecco, dunque, siamo riuniti qui insieme per celebrare la Pentecoste come il Mistero della nostra nascita sia personale che comunitaria. È oggi che la Comunità deve imparare a vivere, è da oggi che deve imparare a rispondere alle sollecitazioni divine e non potrà rispondere, né ognuno di noi né la Comunità intera alle esigenze divine, che in quanto ciascuno di noi e tutta la Comunità non si abbandonerà all'azione dello Spirito divino.
Ecco dunque la prima cosa che opera lo Spirito Santo: l'unità! Non è forse lo Spirito di Dio l'unità del Padre e del Figlio? Sarà dunque ancora lo Spirito Santo ad essere l'unità anche dell'uomo con Dio, l'unità, anzi, di tutta l'umanità con Dio, di tutta quanta la creazione con Dio. Ma prima ancora di operare questa unità di tutta la creazione con Dio, deve operare l'unità nostra.
Che cosa ha compiuto il peccato?
Il peccato ha disgregato l'essere umano: noi non siamo uno, il nostro corpo obbedisce a leggi che sono contrarie alle leggi del nostro spirito, portiamo in noi stessi una guerra, un dissidio. Lo Spirito Santo deve comporre in unità l'essere umano. Ricordate la grande parola di sant'Ireneo? "L'uomo è sfuggito alle mani di Dio col peccato, ma ecco le mani di Dio riprendono l'uomo e lo plasmano nuovamente e le mani di Dio sono il Verbo e lo Spirito Santo". Queste mani devono prendere anche ciascuno di noi per modellarci di nuovo secondo l'immagine di Dio, per ridonarci unità. Dispersi, divisi interiormente è per l'amore di Dio e nell'amore di Dio che saremo ricomposti in perfetta unità, sì che il nostro corpo risponda allo spirito, sì che la legge del nostro corpo non contrasti la legge del nostro spirito e tutto l'essere nostro consumi nella lode divina, nell'amore.
L'unità dell'uomo, quale impegno e quale programma! È difficile che si possa riacquistare questa perfetta unità: possiamo dire che è impossibile. Chi può comporre in unità elementi sparsi, divisi, se non una forza che li trascende, se non un principio esteriore a questi stessi elementi? Il principio esteriore dell'uomo, ma divenuto intimo a lui, è precisamente lo Spirito di Dio. Dio manda in noi il suo Spirito per ricomporre in unità l'uomo, ciascuno di noi. Il profeta Geremia disse: "Siamo come cisterne screpolate che non valgono a contenere acqua". Proprio così. Tutte le nostre potenze invece di convergere nel loro centro in cui dimora Dio, se ne vanno ciascuna per conto proprio e la nostra anima si perde come acqua, si effonde, si versa al di fuori e non si trova più: l'immaginazione, il sentimento, i pensieri, le sollecitudini della vita, i ricordi del passato, il gusto del nostro fantasticare e anche del nostro pensare stesso, l'impegno della nostra volontà, tutto va per proprio conto e non riusciamo nemmeno a prenderci in mano. Non dico totalmente, ma abitualmente viviamo un'alienazione continua, e anche l'uomo non vuole rendersi conto di questo suo perdersi, perdendosi sempre di più. È questo, in fondo, il male del mondo moderno, dell'uomo di oggi: si è talmente perduto, che trova troppa fatica e anche tormento nel riconoscere la sua perdizione, e proprio per non riconoscerla mai, cerca di perdersi totalmente in modo da non ricordarsi mai di se stesso, da non riprendersi mai in mano, in modo da non vedersi mai nella luce, non dico di Dio, ma nemmeno nella luce di una vera responsabilità morale.
Il divertimento
Sapete qual è il lavoro fondamentale dell'uomo? Quello di divertirsi, nel senso proprio latino, di sfuggire a se stesso, di uscire di sé, di non pensare mai. Ecco com'è l'uomo di oggi, anche quando lavora, il lavoro è un divertimento per lui, è il modo di dimenticarsi e tanto più si lavora e con maggiore impegno si lavora perché proprio il lavoro rappresenta il massimo dei divertimenti, il massimo cioè dei mezzi perché l'uomo non entri mai in contatto con se stesso e si riconosca qual è. Oh, la febbre del lavoro proprio dell'uomo moderno è peggio dello stesso suo divertimento, perché nel divertimento sa di abbandonarsi a delle sollecitazioni esteriori alla sua vita, sicché può giocare al pallone per tre ore ma poi deve ritornare a casa, deve mettere il capo a partito; può andare al cinema e starci anche tutta una serata, ma poi deve ripensare al lavoro di domani. I suoi divertimenti non sono così gravi com'è grave il suo lavoro, perché il lavoro si fa e ci si mette tutti noi stessi, proprio perché il lavoro è il supremo divertimento umano, è cioè l'occasione, è il mezzo per dimenticare totalmente le nostre responsabilità vere. L'uomo moderno è l'uomo del lavoro che nel lavoro ha perduto interamente se stesso, non si ricorda mai di essere, né dove va, né perché viva: mangiato dal lavoro, assorbito dal lavoro, l'uomo mai emerge non dico per vedere Dio, ma nemmeno per guardarsi negli occhi, per rendersi conto che ha un'anima, per realizzare un suo destino.
Ecco come siamo perduti. Davvero cisterne screpolate che non valgono a contenere l'acqua siamo noi! Ma chi potrà mettere unità in tutta questa nostra vita interiore, e nella nostra vita anche esteriore? Può unirci un principio sociale? No, perché tutto quello che è sociale ed esteriore è sempre inferiore alla vita intima dell'uomo, perciò non ci si può aspettare dallo Stato, e nemmeno dalla Chiesa come società, qualche cosa che ci unifichi interiormente. È lo Spirito Santo, è Dio stesso che non è esteriore all'uomo, ma è intimo all'uomo e tuttavia non si identifica all'uomo ma lo trascende. Intimo e trascendente, ecco solo questo principio può dare unità all'uomo, soltanto per Lui ed in Lui io sono uno.
Donarsi allo Spirito Santo
Ma in che modo lo Spirito Santo potrà operare la mia unità? Lo Spirito Santo ci può unificare nella misura che noi ci doniamo allo Spirito Santo. Rimane un fatto che Dio ha creato l'uomo donandogli una libertà, facendolo capace di una collaborazione e anche capace di ostacolare l'azione divina. Dio crea. Quando crea le cose non trova ostacolo in esse, l'atto divino le stabilisce nel loro essere. Siccome però tutta la creazione è ordinata all'uomo e trova il suo centro e il suo fine nell'uomo, l'atto divino non realizza quello che vuole se non attraverso di te, se non per il tuo concorso, se non in quanto tu lo lasci operare, se non in quanto tu ti abbandoni a questa forza divina che ti solleva e vuole sollevare con te tutto l'universo. E tutto questo vuol dire che lo Spirito Santo non può unificare l'uomo, e tanto meno può unificare l'umanità, e tanto meno può unificare la creazione se l'uomo singolarmente non si dona a Dio, non si abbandona alla forza dello Spirito. La cooperazione massima che l'uomo ha dato a Dio è stata la cooperazione della Vergine. Infatti è attraverso questa cooperazione che si è compiuta la massima opera di Dio: l'Incarnazione del Verbo. Qual è stata la cooperazione di Maria? L'abbandono totale che ha fatto la Vergine di sé allo Spirito divino: "Ecce ancilla Domini, fiat mihi...". Noi potremo riacquistare l'unità nostra interiore in Dio solo nella misura che ci abbandoneremo, che ci doneremo a questo Spirito divino. Non è cosa facile, sapete, donarci. Non è facile nemmeno a volte donare le nostre cose esteriori, e il dono della nostra anima a Dio è cosa terribile.
Credete voi di esservi dati davvero al Signore? Ma se vi appartenete ancora, ma se ci apparteniamo ancora e con quanti legami! Nessuno di noi ha vissuto e vive pienamente il suo dono di sé. Ma è questo che dobbiamo vivere, perché lo Spirito Santo non può operare in noi se non nella misura che noi lo lasciamo operare; ma non lo lasciamo operare se noi ci conserviamo stretti il nostro bene, se non ci doniamo a Lui per essere strumento della sua azione, per divenire veramente suo possesso. Ecco quello che s'impone: un vero dono di noi stessi, del nostro passato, del nostro presente, del nostro avvenire, del nostro corpo e della nostra anima, di tutto, per ora e per l'eternità.
Non ci apparteniamo
Non essere più nostri: ecco quello che vuol dire donarci a Dio. Non essere più nostri. Vogliamo noi davvero rinunciare a noi stessi per essere tutti di Dio? Certo che lo vogliamo, ma ci sarà difficile ugualmente fare questo dono fintanto che noi non realizziamo fino in fondo che cosa voglia dire per noi esserci donati. Vuol dire non possederci più, vuol dire non difenderci più, vuol dire non voler noi decidere della nostra vita, vuol dire non insegnare noi a Dio il cammino per il quale Egli deve portarci; vuol dire non mettere più nessuna condizione alla divina volontà. Ogni condizione che noi poniamo è una riserva al nostro dono. Ricordiamoci che non dobbiamo avere paura perché è all'amore che ci si dona. Il dono che vogliamo fare di noi stessi a Dio è il dono di noi stessi all'Amore e all'Amore infinito. Se non abbiamo questa persuasione, se non realizziamo questo, ci sarà sempre impossibile donarci. In realtà la difficoltà che noi troviamo a donarci a Dio dipende dal fatto che non crediamo fino in fondo di essere amati; crediamo di poterci salvare meglio da noi stessi, vogliamo avere noi il timone della nostra nave, vogliamo essere noi a dirigere il corso della nostra esistenza. Vogliamo dire a Dio: "Fin qui; chiedi questo e non altro".
In questo giorno di Pentecoste dobbiamo rinnovare la donazione intera dell'essere nostro al Signore: corpo e anima, senza voler poi più rimproverare a Dio perché ci porta attraverso un cammino piuttosto che in un altro, senza lamentarci più con Dio perché ci manda una malattia o qualsiasi altra cosa. Tutto è bello e tutto è bene, ricordatevene. Non dite: "Ma lei padre fa bene a dire questo, ma se fosse nella mia famiglia, col marito che ho, coi nipoti che ci trovo...". No, ve li ha dati il Signore e Lui lo sapeva; queste sono soltanto scuse, pretesti per sfuggire all'azione divina. Abbandonatevi a Dio e accettate da Dio quello che Egli vuole perché è Dio che li ha scelti - vostro marito, i nipoti, i fratelli - e sapeva che quella era la via per vivere il dono vostro a Lui, per vivere in concreto la vostra donazione al Signore. Non anteponete la sapienza vostra alla Sapienza di Dio, lasciatevi prendere da Lui e condurre per la sua via. Donatevi al Signore, donatevi allo Spirito di Dio, anima e corpo, donate il vostro passato e il vostro avvenire. Non pensate più ai vostri peccati: ci pensiamo troppo, tante volte non raggiungiamo la santità proprio perché siamo appesantiti dal pensiero dei nostri peccati passati, delle nostre infedeltà. Ma Lui ci prende così come siamo per trasformarci come Lui vuole, e siamo quello che siamo col passato che è il nostro passato e con l'avvenire che sarà il nostro avvenire. Ma il nostro avvenire proprio perché è il nostro avvenire se noi ci abbandoniamo a Lui, sarà la vita di Dio, non può essere altro che la vita di Dio. E allora non pensiamo più né all'inferno, né al purgatorio, né al paradiso. C'è Dio: non ci può essere altro per l'uomo, se veramente si dona, che Dio stesso. E Dio è il Paradiso, e Dio è la gioia, e Dio è la purezza! Ma cos'è la morte? Non dovete aver paura, guardatela in faccia e amatela la vostra morte e desideratela come l'incontro ultimo con Dio che è l'amore. Fin da ora vi chiedo: amatela! Dovete amarla, ve lo dico, perché altrimenti si fanno delle belle parole e basta; dobbiamo accettarla, volerla ed amarla fin da ora, perché il nostro avvenire è Dio, quel Dio a cui ci siamo donati. E d'altra parte non possiamo neppure allontanarla. Perché dunque volete cercare di bendarvi gli occhi, di mettervi davanti una muraglia? È il passato e l'avvenire che dovete lasciare al Signore, allora non vi apparterrà più che il Signore, Dio solo, ed è in Dio che ritroverete la vostra unità, perché vi sarete perduti e Lui solo rimarrà per voi. E infatti è in Dio solo che l'uomo si ritrova uno. Perder noi stessi per ritrovarci in Lui solo: ecco la via.
Unità della Comunità
Ma non si tratta soltanto di realizzare la nostra unità in Dio, si tratta di realizzare l'unità della Comunità come tale. Si diceva prima che la Pentecoste è la nascita della Comunità. Il dono che noi facciamo di noi stessi a Dio lo facciamo in un contesto storico, in una situazione concreta che è precisamente la Comunità; non c'è nulla da fare, è la Comunità! E anche qui, non giochiamo. Perché in fondo l'atto supremo della nostra esistenza, questo dono di noi stessi a Dio, lo abbiamo realizzato proprio nella Comunità: la consacrazione. Certo lo abbiamo realizzato nella Chiesa con il Battesimo, ma poi questo Battesimo l'abbiamo voluto vivere e realizzare pienamente proprio attraverso la Comunità. E allora, in concreto, l'unità nostra realizzerà anche l'unità della Comunità, perché il dono di noi stessi a Dio implica per sé un dono alla Comunità, verso la Comunità e nella Comunità. Infatti quella consacrazione che abbiamo fatto è proprio quella consacrazione che ci ha unito fra noi. Come quando ci siamo consacrati a Dio col Battesimo siamo venuti a far parte della Chiesa, così la consacrazione religiosa, nello stesso tempo che c'impegnava alla perfezione dell'amore verso Dio, c'impegnava anche fra noi, a vivere una vita di famiglia, ad essere una sola cosa: sono due impegni inscindibili. Il dono di noi stessi a Dio si realizza nel dono alla Comunità e guardate che il dono alla Comunità è molto concreto. Come l'amore di Dio si prova nell'amore del prossimo, così il dono di noi stessi a Dio si prova in questo dono nella Comunità che implica davvero tanta pazienza, tanta umiltà, tante virtù. Quanto più si va avanti tanto più ce ne rendiamo conto, ma è giusto, è naturale, ed è bene che sia così, perché altrimenti noi ci si accontenterebbe soltanto di belle parole e di bei sentimenti. Il dono di noi stessi a Dio si realizza nel dono che noi facciamo alla Comunità: della nostra vita, del nostro corpo, della nostra anima, di tutto.
Vi ricordate di Edel Quinn [Edel Quinn (1907-1944), irlandese, è stata una missionaria laica, erede e continuatrice della grande tradizione missionaria di san Patrizio]? Mangiata dalla febbre, tisica, moribonda, quasi non si è risparmiata fino all'ultimo giorno per la sua Comunità. È così che ha vissuto il suo dono concreto a Dio e il suo dono alla Chiesa, vivendo per la sua comunità, sacrificandosi per essa. Ha lasciato famiglia, ha abbandonato ogni cosa, non ha curato la sua salute. Aveva la febbre a quaranta e andava su una jeep attraverso l'Africa per portare il suo messaggio, per vivere la sua funzione, il suo compito. Oh, lo so bene quanto costa anche a me, sapete, vivere per la Comunità; così, anch'io cerco di evadere. Può essere un'evasione tante volte anche scrivere un libro [cfr. Per l'acqua e per il fuoco, 12.9.1970]. Io devo vivere per voi, in concreto per voi, ma non soltanto per contentarvi, anche per schiaffeggiarvi. Vivere per voi, per chiedere a voi tutto, per non lasciarvi nella vostra debolezza, nella vostra pigrizia, nella vostra indolenza. Devo sapere che la mia vita è questa; è un servizio, non ai vostri egoismi, ma alla vostra anima che è stata chiamata alla santità. Devo vivere per voi, per questi ragazzi che il Signore mi ha dato, anche se rimarranno quei tre gatti che sono, anche se voi rimarrete quei tre gatti che siete, che importa? Lo sa Dio! Perciò vuole che io viva per voi, io non devo chiedere conto al Signore. Se Dio mi ha voluto nella Comunità, in questa baracca, che io viva e muoia per essa! Ecco la mia funzione. Ma questo è vero anche per tutti voi, miei cari figlioli. È vero per voi. Non cercate di evadere; quello che fate al di fuori è perduto, così come è perduto tutto quello che faccio io se non è ordinato a voi, alla vostra santificazione.
Indubbiamente io non escludo gli altri, non si può mai escludere gli altri, ma gli altri riceveranno nella misura che io mi dono intanto a voi che siete coloro che Dio mi ha messo vicino. Pretendere di poter amare gli Zulù senza amare il mio compagno di lavoro, colui che vive con me sotto il medesimo tetto è soltanto letteratura, non altro. Bisogna che io impari ad amare ciascuno di voi fino in fondo, ad accogliervi, sì, così come siete, ma per farvi come Lui vi vuole. Perciò potrò anche essere duro, ma dovrò essere sopratutto molto paziente e disponibile, sempre umile e generoso e pronto ad accogliervi perché nasca davvero un'unità fra di noi, unità che prima di tutto implica veramente non soltanto unità di una stessa vocazione, ma un'unità di uno stesso sentimento, così come di uno stesso ideale. Precisamente quel "cor unum et anima una" di cui parlano gli Atti degli Apostoli (cfr. At 4, 32).
La festa della Pentecoste è la festa, dunque, in cui deve nascere la Comunità, e la Pentecoste noi dobbiamo viverla precisamente proprio per questo: perché la Comunità sia, se il Signore la vuole, e nella misura che Egli la vuole, come Egli la vuole.
Come amare la Comunità?
Come dobbiamo amare la Comunità? È presto detto, miei cari figlioli: più di noi stessi. È l'unica misura. Un po' troppo? Forse è troppo poco, ma di più non posso chiedere, di più non può chiedervi nemmeno il Signore. L'unità della Comunità è la prova poi che veramente lo Spirito Santo è presente fra noi. Noi possiamo sempre illuderci di avere realizzato la nostra unità interiore, come uomini singoli e la prova che non c'illudiamo è sempre l'amore del prossimo che crea la Chiesa, è sempre la carità fraterna che crea la Comunità: comunità parrocchiale, comunità religiosa, comunità di gruppo; la comunità. Non nasce nulla se doniamo soltanto il dito mignolo, se diamo soltanto una parte di noi stessi. Anche questo allora diviene un divertimento e io vi chiedo allora di lasciare la Comunità; sarebbe molto meglio, perché è un pericolo per la Comunità intera e per voi. Non si può mettere la Chiesa con le altre cose: la Chiesa è tutto. Ora noi si vive precisamente il mistero della Chiesa nel mistero di una unità, di una comunità a noi più proporzionata, che non fa più piccola la Chiesa, ma fa presente la Chiesa secondo le dimensioni proprie di ciascuno. Ora che cosa opera lo Spirito Santo in questa unità che Egli compie in noi e in tutta la Comunità? Questa unità che cos'è? Per capirci qualcosa possiamo ritornare un po' al Mistero Trinitario: lo Spirito Santo è l'unità del Padre e del Figlio e questa unità si realizza nella circuminsessione, nel fatto che il Padre è nel Figlio e il Figlio è nel Padre: il Padre è Padre totalmente in quanto si riferisce al Figlio e il Figlio è Figlio in quanto totalmente e unicamente si riferisce al Padre. È quell'unità che, cioè, fa sì che l'uno viva dell'altro, cosicché l'uno dall'altro sono inscindibili anche se rimangono distinti, sono uno quantunque siano due. Ora, come sono uno? Ricordate le parole del Vangelo: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto rivelarlo» (Mt 11, 27). Questo essere l'uno nell'altro è in fondo una conoscenza. La parola può essere interpretata in senso molto banale ma può essere interpretata anche nel suo vero senso. Che vuol dire conoscere? Nell'atto della conoscenza tu entri in possesso della cosa. Qui ci può veramente aiutare la metafisica di san Tommaso: nell'atto del conoscere l'intelletto umano trae a sé l'oggetto conosciuto e lo possiede, mentre nell'atto dell'amore l'amante esce di sé per donarsi all'amante, ed è in possesso dell'essere amato. L'unità di ciascuno di noi, l'unità fra di noi, l'unità con Dio che cos'è allora?
Se ci si riferisce all'unità con Dio abbiamo dei testi molto precisi ed espliciti nel Vangelo di Giovanni. Questa unità non è altro che la nostra conoscenza del Cristo e di Dio. Siamo uno con Dio perché di fatto noi siamo totalmente in Dio, ma Dio anche è totalmente in noi, cosicché di fatto noi non viviamo, non possediamo più, non abbiamo altra conoscenza che di Lui: tutta la nostra vita è Lui e Lui solo. Così per il Figlio: tutta la vita del Figlio non è che il Padre, Egli non vive che il Padre, Egli non conosce che il Padre, Egli non vede che il Padre.
Il Padre solo è tutta la sua vita, la sua ricchezza, la sua gloria, la sua santità. E altrettanto è vero del Padre: tutta la sua vita, ricchezza, gloria non è che il Figlio. La mia unità con Dio vuol dire questo: la mia vita è Lui, io non sono più, non mi conosco più, sono totalmente perduto perché mi sono donato; è Lui che mi conosce, io non mi conosco, la mia conoscenza è Dio solo. Ed è questo il paradiso, quando non ci conosceremo più, perché allora ci saremo perduti, avremo perduto ogni nozione della nostra miseria, ogni nozione del nostro peccato, ogni nozione dei nostri limiti, ogni conoscenza sperimentale della nostra meschinità, della nostra povertà umana, creata. Dio solo è la nostra vita, Egli ci conosce e noi non conosciamo che Lui: paradiso.
L'unità fra noi come si realizza?
Come si realizza l'unità fra di noi? Nel vivere noi la vita di tutta la Comunità, nel non conoscere più una nostra vita personale, individuale. Nella misura che la vita della Comunità diverrà la nostra vita, la nostra stessa esperienza, il contenuto stesso della nostra esistenza, soltanto allora potremo dire di essere una sola cosa fra noi: quando noi ci saremo perduti e non vivremo più che la vita di tutti e di tutta la Comunità come tale; presenti in noi ciascuno degli altri, presenti in noi tutti gli altri nella loro unità. Vivere per la Comunità vuol dire intanto che noi ci siamo liberati di noi stessi, e il nostro dono è totalmente per gli altri: non viviamo che per la Comunità, non vediamo che la Comunità, non vediamo che il suo bene, non vediamo che i suoi pericoli, non ci rendiamo conto che dei suoi bisogni. Vedete come il linguaggio si fa concreto. Fintanto che si parla di Dio si crede subito di aver realizzato tutto questo, ma se si viene al concreto ci rendiamo conto di quanto cammino ancora abbiamo da fare. Vi ricordate quello che diceva quel Chassid polacco? «"Perché tu non mi conforti?". "E dimmi che pene hai". "Se tu mi amassi tu le avresti già conosciute, tu mi avresti conosciuto, avresti vissuto in me più che in te"». Il fatto che siamo impenetrabili gli uni agli altri, il fatto che noi possiamo vivere vicini senza renderci conto delle pene di un altro, è già significativo di una nostra indisponibilità, è già segno che non ci siamo donati. Quante volte voi mi avete rimproverato che siete venuti qui e non vi ho nemmeno guardati, forse. Ed è giusto il vostro rimprovero; il fatto che io non sia sensibile a una vostra attesa dimostra che io non vi amavo abbastanza. Ma non fate soltanto rimproveri a me, pensate anche a voi: come avete vissuto la vita degli altri? Fintanto che noi si pretende dagli altri non abbiamo capito nemmeno l''abc" della vita cristiana; fintanto che noi anteponiamo gli altri a noi stessi e diciamo "a me non è stato dato quello che mi aspettavo dalla Comunità" siamo fuori strada. Tu non puoi chiedere nulla, tu devi chiedere a te stesso soltanto di poter morire, null'altro, di poter donarti fino in fondo senza limiti; e io anche lo devo chiedere a me stesso, intendiamoci, e non a voi. Ma ciascuno è questo che deve chiedere a sé: di poter amare fino in fondo, di poter donarsi fino in fondo senza limiti, per tutti. Non giochiamo più, non ne vale la pena! Siamo vicini a morire, che cosa volete aspettare allora a santificarvi, se non vi liberate finalmente da tutte le vostre meschinità, suscettibilità, amor proprio, da tutti i vostri egoismi? Amare la Comunità vuol dire non domandarci più nulla di noi stessi. C'è ancora tanto, invece, non dico soltanto di personale ma di egoistico, perché noi mettiamo tante difese al nostro piccolo io, alla nostra piccola vita, alla nostra piccola esperienza, e pretendiamo che la Comunità intera viva per noi! Non soltanto allora siamo egoisti, ma nel nostro egoismo ci vogliamo assicurare il beneficio di tante persone quante sono nella Comunità quelle che debbono pensare a noi. Cosi l'egoismo si moltiplica per tante persone, quante noi siamo. Non è così, che si vive per la Comunità, non è così che si conosce quest'unità operata, creata dallo Spirito Divino!
L'unità passa attraverso l'umiltà
L'unità in noi, l'unità in ciascuno di noi si realizza con la conoscenza del nostro nulla. Cioè è l'umiltà che ci assicura e misura l'unità che l'uomo ha raggiunto con se stesso. Perché l'uomo, quando ha realizzato veramente se stesso, ha realizzato il suo essere creatura cioè pura capacità aperta al dono di Dio. L'uomo in sé e per sé non è che un nulla cosciente, perché è proporzionato al tutto di Dio: "nulla", "tutto", l'abisso che chiama l'abisso. Io non mi conosco che in quanto mi conosco come nulla aperto a ricevere il tutto; io sono il puro nulla e null'altra cosa. Quando ci si conosce in maniera diversa, allora non si è realizzata ancora la nostra vita; conosciamo la superficie, le unghie, le mani, ma non l'anima. O dell'anima conosciamo la fantasia, i nostri pensieri, il nostro passato, le nostre preoccupazioni, magari il nostro futuro, ma non il vero fondo. L'unità dell'uomo è realizzata nella conoscenza che l'uomo ha di sé come pura creatura, pura capacità aperta ad accogliere il dono divino, come pura umiltà senza fondo.
Ecco, allora, in che consiste la vita cristiana. Lo Spirito Santo agisce in noi nella misura che acquistiamo un'umiltà senza fondo nella vera conoscenza di noi stessi; agisce fra noi nell'unità che stabilisce, nel farci vivere una carità fraterna che ci dona totalmente agli altri nella dimenticanza di noi stessi, nel superamento di ogni egoismo. Agisce nell'unità nostra con Dio realizzando questa unità in questa vita divina che è pura estasi di amore: Dio solo, l'anima non vede più che Dio, Dio solo.
Seconda meditazione
Il modo d'agire dello Spirito Santo
Il cammino dell'unità suppone una donazione nostra a Dio, donazione che ha come risposta da parte di Dio precisamente un entrare in possesso dell'anima, un farla divenire sua proprietà. Ed è questo che lo Spirito Santo opera, un trasferimento dal piano umano al piano divino. Ed è questo che lo Spirito Santo compie: ci introduce nel Mistero di Dio. L'iniziativa è di Dio, del Padre che per mezzo del Figlio ci comunica il suo Spirito. Ed è precisamente nella comunicazione del Suo Spirito che termina il Mistero cristiano. Fintanto che lo Spirito Santo non è donato al mondo, gli uomini non sono redenti, perché non sono entrati a far parte della famiglia di Dio. Gli Apostoli possono essere i discepoli del Cristo, ma ancora non vivono la sua vita, ancora rimangono come estranei al Mistero. È con la Morte e con la Resurrezione che essi entrano davvero nel Mistero di Dio perché attraverso la Morte e la Resurrezione il Cristo comunica il suo Spirito. L'iniziativa è dunque di Dio, Dio che si dona nel Suo Spirito; ma proprio nel dono dello Spirito l'uomo, ecco, risale ed entra nel Mistero di Dio. Nello Spirito, per il Figlio tutta la creazione risale al Padre. Ecco la nostra vita! Dice Gesù che lo Spirito Santo prenderà da Lui, dal Cristo: «de meo accipiet et adnuntiabit vobis» (Gv 16, 14). Non farà che ricordare le parole del Cristo, non ci donerà che la grazia che Egli ha meritato, non ci unirà che a Lui.
Lo Spirito Santo è la Persona che unisce, che opera l'unità, ma che opera l'unità facendosi da parte: mai Egli è in primo piano. Si rivela nelle sue operazioni, in quello che compie, e quello che compie è l'Incarnazione del Verbo, e quello che compie è la nostra unione con Cristo: non Lui si rivela direttamente. Così anche in noi, Egli è donato, vive nella nostra anima, Egli opera la nostra santificazione, ma quanto più Egli è presente tanto più Egli sembra nascosto, sembra in qualche modo identificarsi con l'opera che Egli fa. Il Cristo tu Lo vedi oggettivamente anche separato da te, si può contemplarLo nel Vangelo, tu puoi adorarLo nell'Eucaristia. Lo Spirito Santo è inseparabile dall'opera che Egli fa, è dunque inseparabile in qualche modo da te, è distinto da te e tuttavia è soltanto in quello che compie nell'intimo tuo che tu puoi ritrovarlo, che tu puoi accedere a Lui, che tu puoi riconoscerne la presenza.
Lo Spirito Santo crea le relazioni
Ma che cosa compie in modo particolare lo Spirito? Un prolungamento dell'Incarnazione del Verbo. Quello Spirito che adombra la Vergine in tal modo che Ella concepisce il Verbo di Dio come suo Figlio, è anche il medesimo Spirito che adombra tutta la Chiesa, sicché da tutta la Chiesa non nasca che Cristo. Per lo Spirito Santo noi tutti siamo uno solo: Gesù, Cristo Signore!
Ma non soltanto questo. Lui è la Persona della Santissima Trinità che personalizza le altre Persone. È per lo Spirito Santo che il Padre si dona al Figlio e il Figlio si dona al Padre, cioè il Padre e il Figlio sono Uno nella loro opposizione radicale. Nello stesso tempo che lo Spirito Santo è l'unità del Padre e del Figlio è anche in qualche modo la loro opposizione, perché fa sì che il Padre tutto si dona al Figlio e il Figlio tutto al Padre. In quanto Persona è pura relazione, assoluta relazione che implica un essere di fronte in quanto Persona, totalmente di fronte: il Padre non è il Figlio e il Figlio non è il Padre, per quanto il Figlio è Figlio non ha nulla del Padre, in quanto il Padre è Padre non è nulla del Figlio. Opposizione totale nella paternità e nella finalità.
Questo che è vero nella Trinità, è vero anche nella vita cristiana; lo Spirito Santo ci fa una sola cosa fra noi, un solo Cristo. Pur tuttavia, che cosa fa adombrando il seno della Vergine? Non solo opera l'Incarnazione del Verbo, fa anche sì che la Vergine divenga Madre di Dio, cioè la Vergine santa è in rapporto col Verbo. È lo Spirito Santo che crea questo rapporto, rapporto totale, onde la Vergine non vive che per essere la Madre, onde Gesù non è che in quanto è Figlio di Maria. Anche la vita della creatura, per lo Spirito Santo, non diviene che rapporto. Persona vuol dire rapporto, ma rapporto totale d'amore a chi se non a Dio, a chi se non al Verbo, a chi se non al Cristo? Ed ecco, è lo Spirito Santo che nello stesso tempo fa della Chiesa l'unico Corpo mistico del Cristo, ed è lo Spirito Santo che fa sì che la Chiesa sia la sposa del Cristo, in ogni persona. Per questo dicevo che è lo Spirito Santo che personalizza, fa sì che noi siamo totalmente distinti dal Verbo in quanto siamo l'amante ed Egli è l'Amato, in quanto siamo l'amato ed Egli è l'Amante, in quanto Egli è Colui che si dona, in quanto noi siamo coloro che riceviamo, in quanto noi siamo coloro che doniamo ed Egli riceve. Quello che è il rapporto del Padre al Figlio nel seno della Trinità diviene analogicamente in qualche modo il rapporto della creatura nei confronti del Verbo incarnato. Proprio per lo Spirito Santo Egli è mio Figlio, proprio per lo Spirito Santo Egli è mio Maestro, Egli è il mio Re, Egli è il mio Amico, Egli è il mio Sposo. Però proprio per lo Spirito Santo io sono la sposa e la madre, io sono l'amico e il discepolo, io sono il suddito. È tutto rapporto. E ci realizziamo e siamo soltanto in quanto siamo questo rapporto.
Si noti bene: non è possibile vivere all'uomo che in quanto è persona, ed essere persona, per l'uomo, vuol dire vivere il rapporto col Cristo, con il Verbo incarnato. Ma d'altra parte, questo rapporto col Verbo incarnato l'uomo non lo vive che in dipendenza dallo Spirito di Dio, perché nessuno di noi potrebbe vivere mai un rapporto con la Seconda Persona della Santissima Trinità, se non ce lo facesse vivere lo Spirito di Dio. È per lo Spirito divino che una povera donna, una fanciulla, una bambina diviene la Madre di Dio. La Madre di Dio! È per lo Spirito Santo che noi diveniamo prima i discepoli, poi gli amici, poi i fratelli, poi la sposa, la madre del Cristo. Ognuno di noi è la sposa di Gesù, ognuno di noi è la Madre del Cristo, nella misura che accoglie e si abbandona all'azione dello Spirito.
Lo Spirito Santo ci rende persone
Ecco quello che fa lo Spirito Santo: ci distingue anche fra noi. Ecco quello che è la vita religiosa vissuta in una docilità allo Spirito Santo. Fintanto che viviamo al di fuori del Mistero cristiano l'uomo non soltanto si perde come uomo ma si perde anche come persona, perché di fatto non riesce mai a realizzare un rapporto vero fino in fondo con un'altra creatura. Siamo impenetrabili l'uno all'altro, siamo incomunicabili; fino nel profondo noi rimaniamo segreti, non è possibile per noi né donarci, né ricevere l'altro. Per vivere pienamente la nostra vita noi dobbiamo aprirci e donarci totalmente a uno che ci possa ricevere, a Uno che totalmente a noi si possa donare. Ma chi è questo se non il Cristo? Vivere dunque per l'uomo non soltanto come uomo, ma come persona, vuol dire vivere questo rapporto, ma questo rapporto con lui lo può realizzare in noi soltanto lo Spirito divino. Per questo vivere, realizzando quello che ciascuno di noi è in distinzione dagli altri, è vivere in docilità allo Spirito il nostro rapporto con Gesù Signore.
Ecco, noi siamo, abbiamo un nome, soltanto se Egli ci chiama, soltanto e in quanto noi Lo chiamiamo. Dice Maria Maddalena: "Rabbunì". Dice Gesù: "Maria". Ecco, l'uomo, la donna nascono, emergono dal nulla come persone, con un nome proprio, soltanto se Gesù le chiama e soltanto se loro Lo chiamano, come loro Sposo e Maestro, come loro Figlio o loro Re. È una cosa stupenda, meravigliosa vivere questo! Non siamo, non abbiamo nome nel mondo: sono nomi convenzionali quello di dire Anna, o di dire Divo o di dire Albertina; sono nomi convenzionali, tanto per capirci. Ma allora, qual è il nostro vero nome? Il vero nome è Lui solo che ce lo dice e ci chiama: "madre". E ci dice "donna" e vuol dire "sposa". E ci dice "figlio". "Tu sei Cefa"; è Lui che mette il nome, che dà il nome. Ma tutto questo è possibile soltanto se viviamo in una docilità allo Spirito Santo questo nostro rapporto con Cristo. Tutta la nostra vita è un rapporto con Lui, il Cristo.
Come è bello tutto questo e come è grande! Ci sentiamo di vivere ora, incominciamo a vivere ora! Sentiamo davvero che è lo Spirito Santo che come all'inizio della creazione fa nascere i mondi, qui fa nascere le persone. Allora era come un vento che aleggiava su tutto il caos perché le cose sorgessero come dal nulla; ora invece è l'amore che fa si che noi emergiamo dalla moltitudine come un "io" che chiama, come un "io" che è chiamato.
Spose e madri
E notate, è proprio col primo atto della Resurrezione che l'uomo ha acquistato un nome: "Maria"! È questa la redenzione vera dell'uomo: l'uomo è chiamato per nome da Dio, dunque l'uomo ha un nome, io sono un nome, per tutta l'eternità Dio mi conosce, sono distinto per sempre. Non posso essere sommerso da una moltitudine informe, il caos non mi riabbraccia più, io sono un nome eterno, perché Egli mi ama. Ed è nello Spirito Santo che Egli mi ama, ed è nello Spirito che io Lo amo, e perciò la mia vita è questo rapporto di amore, onde sono chiamato e rispondo, onde io chiamo ed Egli risponde a me.
Nella vita divina il Padre e il Figlio, il Figlio e il Padre sono uno nello Spirito Santo e il Padre e il Figlio sono due per lo Spirito Santo, onde l'uno è Padre e l'altro è Figlio nel dono reciproco di Sé. Così nella vita al di fuori di Dio, in questa vita però onde Dio si comunica al mondo, l'uomo, tutti gli uomini sono uno con Cristo. Cristo e gli uomini sono tutti uno solo, tutti un solo Cristo. Eppure in questa unità ogni uomo è la sposa ed Egli lo Sposo; ogni uomo è la madre ed Egli il Figlio; ogni uomo è l'amico ed Egli è l'Amico, ogni uomo è fratello ed Egli è il Fratello. Ma non fratelli, ma non amici: sposi, oppure madri. Al termine infatti non vi sono che questi due rapporti, che sono rapporti totali, onde io tutto mi comunico: Egli vive di me, vive in me. Pensate: vive in me! Anche per la mia carne Egli vive, vive anche per il mio corpo: le mani che agiscono durante la Messa, la bocca che parla, il cuore che ama; Egli vive di me, del mio corpo, ma vive per la mia anima e di me Egli tutto vive: l'Amato. Ma anch'io mi do a Lui perché Egli mi possegga come la sposa e voglio essere posseduto da Lui che è lo Sposo. Ecco la mia vita, la nostra vita! La vita dell'uomo è questo rapporto, il rapporto che stabilisce lo Spirito di Dio nella misura che a questo Spirito mi affido, nella misura che a questo Spirito mi dono, mi abbandono per essere posseduto da Lui.
Ecco, sono poche cose, ma mi sembra che siano essenziali. Non importa che noi continuiamo nel nostro discorso. Pensate però la grandezza che deriva da queste poche parole. Questa nozione non ve l'avevo mai accennata e mi sembrava opportuno oggi che noi invece la considerassimo attentamente. Non solo lo Spirito Santo compie l'unità, lo Spirito Santo fa anche la differenza. Non la diversità, si noti bene, ma la distinzione. Distinzione di opposizione che deriva da un rapporto. Siccome il rapporto è totale anche l'opposizione deve essere, direi, totale, così come la madre col figlio, così come la sposa e lo sposo. Mentre fra fratelli l'opposizione non è totale e anche fra amici non è totale. Invece fra padre e figlio, sì, fra il figlio e il padre, sì; fra la madre e il figlio, sì. Così anche nel piano creato, fra lo sposo e la sposa, fra la madre e il figlio. E io sono la madre, la sposa ma Egli è il mio Figlio ed è il mio Sposo divino.
Terza meditazione
Siamo una cosa sola con Dio
Abbiamo detto nelle meditazioni precedenti delle cose molto importanti, ma quello che abbiamo detto rischia di essere troppo alto o troppo generico; noi dobbiamo vedere in che modo realizzarlo. Si è detto qualcosa, ma non tutto. Si è detto che tutto dipende dal dono che dobbiamo fare di noi stessi a Dio, nell'abbandono che dobbiamo fare di noi stessi all'azione dello Spirito. Il dono di noi stessi non può essere reale se non è reale la persona alla quale ci doniamo. La vita cristiana suppone la fede, ma una fede pratica, una fede in qualche cosa di concreto: Dio è presente, è reale per l'anima che veramente a Lui si dona, e questo Dio è lo Spirito Santo che viene a te proprio perché tu a Lui ti doni.
Non basta credere in un Dio creatore dal quale dipendono il cielo e la terra, in un Dio che ha stabilito la terra sui cardini, come dice l'Antico Testamento. Non si tratta per noi di credere nell'esistenza di un Dio che è ancora lontano, inafferrabile per l'uomo: si tratta di credere in un Dio che veramente si fa intimo a noi, vuol essere nostro per farci suoi e non si fa nostro che nella Persona di questo Spirito divino che veramente è entrato nel mondo, si comunica all'anima e vive in noi. Dio è nostro, tutto per noi, è un bene del quale noi possiamo usare. Se noi abbiamo questa certezza, allora possiamo pensare di vivere una vita cristiana.
Dio è talmente nostro che è divenuto il principio di tutte le nostre operazioni. Tutte le operazioni hanno per principio Dio e l'anima, insieme ma non come unico principio (se fosse come unico principio si cadrebbe nel panteismo). Lo Spirito Santo è nostro, ma rimane un dono. Noi non ci confondiamo con questo Spirito, ma è per Lui e in Lui che ci muoviamo, viviamo e siamo: e il nostro atto, proprio per questo, è insieme Suo e nostro.
Il Signore è presente nel tabernacolo, nella pisside, nel calice; ma calice, tabernacolo e pisside non posseggono il Cristo, non hanno la capacità di entrare in possesso di Dio. Lo contengono, ma non Lo posseggono. Dio invece si dà a te per essere posseduto da te.
Il dono dello Spirito Santo è quello che distingue l'economia cristiana e rende possibile a noi il nostro stesso dono a Dio; non si può pensare di possedere Dio senza essere noi posseduti da Lui, perché altrimenti possedere Dio vorrebbe dire staccare lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio, se questo possesso non implicasse anche immediatamente l'essere noi posseduti da Dio. Tu non conosci Dio che in quanto Lo possiedi, tu non Lo conosci che in quanto ne sei posseduto. Talvolta crediamo di vivere questa nostra dipendenza dallo Spirito Santo, pensando lo Spirito Santo come qualche cosa di estraneo a noi, che agisce su noi dal di fuori, così come agiscono su noi il caldo e il freddo; il sole ci riscalda, il gelo ci intirizzisce. Così noi pensiamo che lo Spirito Santo, come il sole e come il gelo, possa agire dal di fuori dandoci calore divino, dilatando il nostro spirito, trasformando in qualche modo i nostri sentimenti, la nostra esperienza interiore. No, Dio non agisce così, dal di fuori; se lo Spirito Santo agisce, agisce in quanto è principio delle nostre operazioni, in quanto veramente Egli è il fondo di tutto l'essere nostro, è la radice di tutto il nostro essere. Ora tutto questo che cosa implica? Implica che possedere vuol dire essere posseduti, vuol dire che noi dobbiamo sentirci veramente, non soltanto pervasi ma presi da Lui, vuol dire che noi dobbiamo sentirci strumento, organo della sua azione.
Possedere nell'essere posseduti
C'è però un pericolo che nasce dal fatto che noi potremmo credere in un'azione che non fosse reciproca; se credessimo di poter essere invasi dallo Spirito, di parlare in suo nome, senza essere trasformati in Lui, senza essere posseduti pienamente, se crediamo di possederLo senza essere posseduti. Ma nella misura che io voglio essere posseduto, nella misura che io realmente mi dono, e che vivo il mio dono a Lui, Egli anche è il Suo dono a me. E se Egli è dono a me, e se Egli è mio, come è immensa la mia vita, quale grande forza io posseggo, come debbo superare in questa certezza, in questa fede ogni sentimento della mia vanità, della mia povertà, del mio nulla, della mia impotenza! Intendiamoci bene, non per usare dello Spirito come di una forza a mio vantaggio, perché dire "a mio vantaggio" vuol dire che io non mi sono donato, vuol dire che io, sì, pretendo di possederlo, ma non di essere posseduto. Io Lo posseggo soltanto nella misura che mi sono spogliato da ogni mio egoismo e mi lascio possedere da Dio, nella misura che mi lascio realmente possedere e Lo posseggo, allora la mia vita è realmente divina. E tutto questo ha il suo fondamento in una fede pratica, concreta, viva che Dio è in me ed è mio, che io sono in Lui e sono Suo. Nei riguardi di ciascuno di noi per se stesso, ognuno di noi deve sentirsi veramente posseduto, donato per sempre, sentire veramente che si è donato e non si può riprendere più: sentire veramente che è come un'ostia consacrata. Non vi è più nulla in noi di nostro: tutta la divinità dello Spirito è nostra proprietà. Questo deve darci la possibilità di vivere una pienezza assoluta in ogni istante.
Tutto nell'attimo presente
Non siamo parte di un tutto, siamo il tutto se Dio è nostro. Nell'atto che io vivo, io non vivo un atto che si compone nella successione del tempo ma vivo tutta la vita, tutta l'eternità; non vi è un prima e un dopo, non vi è un'ora e un'altra, non vi è qui ed altrove. In ogni istante e in ogni luogo vivi il tutto perché Dio è tutto. Il senso della pienezza, dell'assoluto che l'anima vive in questa presenza attiva di Dio in noi: ecco che cos'è che distingue la vita cristiana.
Indubbiamente non realizzeremo mai certamente tutto questo, non potremmo nemmeno esserne consapevoli in tal modo che non si possa realizzarlo di più; per questo viviamo anche nel tempo, perché in ogni atto che viviamo si possa realizzare, in misura sempre più intensa, questo assoluto divino. E pur tuttavia in ogni atto devo cogliere questo assoluto nella misura della grazia che ho nel momento che vivo, per essere abilitato a vivere una misura più colma nell'istante che segue. Ma vedete, l'istante che segue non si compone con l'istante di prima, è sempre un assoluto. E questo ci fa capire la morte. Credete voi forse di portare un corbellino pieno di tutte le robine che avete fatto durante la vita nel momento del vostro morire? Molto spesso si ha questa concezione della vita cristiana e della nostra morte: tutte le opere nostre ci seguono sicché abbiamo dei corbellini e una sporta da portare lassù in paradiso. In realtà no! L'atto del nostro morire è un atto unico, e davvero non ha né un prima né un dopo, ma in quest'atto unico tu realizzi quello che istante per istante hai avuto la capacità di cogliere e se hai risposto a Dio, allora l'atto del tuo morire è l'atto veramente terminale di un cammino onde tu hai vissuto l'assoluto ogni giorno, ogni istante in un modo sempre più pieno, sempre più intenso. È la distinzione che fa san Tommaso d'Aquino, che è importantissima anche se è in parte molto misteriosa: «Totus sed non totaliter». Dio non si dà per parte e se Dio vive in te, vive già tutto in te ora, e vivrà tutto anche domani quando sarai santo. Ma oggi meno totalmente di domani, e mai totalmente così che non possa vivere di più anche se sei giunto alla santità: e l'atto ultimo della tua morte, dunque, è l'atto onde tu vivi quest'assoluto se tu da questo assoluto non ti strappi, se tu hai sempre risposto.
Nelle adunanze precedenti si diceva precisamente che la fine si accompagna al processo del tempo; in ogni istante tu vivi la fine perché in ogni istante tu vivi Dio, e oltre Dio non c'è nulla. Perciò questo istante non si compone in una storia con l'istante che verrà; sotto questo aspetto il Buddismo ha ragione, negando una continuità, e pur tuttavia una continuità vi è da parte dell'uomo il quale però non procede di cosa in cosa, ma affonda più o meno, più o meno si inserisce in una presenza, in un tutto che fin dall'inizio è donato, se Dio fin dall'inizio è donato. Tutto questo vuol dire non rimandare a domani e nemmeno a stasera; vivete ora, nella capacità che avete, tutta la vita, perché ora e qui dovete vivere Dio, se Dio è vostro, se la vita cristiana è questo dono dello Spirito e nel dono dello Spirito il dono di Dio, di tutto Dio. Certo che vivete anche nel tempo e dovete dunque vivere questo Dio fra un'ora in un modo diverso da come lo vivete ora, ma tuttavia il dono rimane lo stesso, sarà la vostra anima che avrà acquistato la capacità di abbracciare più pienamente questo dono, o di radicarsi più profondamente in questa Presenza. Ma ora e qui, tutto: ora e qui, Dio è per te.
Io vi chiedo di vivere questo. Non credo che sia facile, ma credo che sia essenziale alla vita cristiana. Comprendere questo vuol dire credere, ed è una cosa immensa. Io, ogni volta che dico una preghiera, soprattutto alla Messa indubbiamente, ma comunque quando realizzo un atto soprannaturale, se veramente lo realizzo, non riesco più a cogliere altro che questa presenza; non una presenza astratta, contigua al mio essere, ma la presenza di un Dio che mi prende e che io posseggo e dal quale io sono posseduto, presenza che implica veramente un assoluto, senza prima né dopo, senza né qui né là, presenza pura e assoluta di colui che è tutto.
Ogni desiderio si compie nello Spirito
Dono dello Spirito, e proprio perché nel dono dello Spirito questo si realizza, il Cristianesimo ha posto una fine alla rivelazione, ha posto una fine alla storia; è veramente la risposta di Dio all'uomo.
Dono dello Spirito all'uomo! Ora, dicevo, il dono dello Spirito implica ch'io abbia coscienza che Egli è mio; e questa coscienza vuol dire una certa esperienza, una conoscenza sperimentale, vuol dire sperimentare in qualche modo questo assoluto della vita cristiana. Non vi sembra davvero che in questo momento non abbiamo più nulla da desiderare? Comprendere la vita cristiana vuol dire realizzare che effettivamente non ci fa nulla essere qui o altrove: se io vivo questo possesso, in questo possesso tutto io trovo. Ecco perché non posso desiderare di essere vescovo, di essere più giovane. Che senso ha? Dio è il mio possesso e nella presenza divina queste altre cose non sono, perché in fondo queste altre cose sono soltanto condizione di questa presenza e quando questa presenza è realizzata, la condizione se ne va.
Questo vuol dire entrare in possesso, vivere questo dono perché Dio o è tutto o non è nulla. Potrebbe essere qualche cosa di meno per voi il dono dello Spirito se veramente voi lo ricevete, se veramente Egli è vostro? Se fosse qualche cosa di meno non sarebbe più dono, sarebbero cianfrusaglie, sentimentucci di donne pie, nulla di più. Ecco perché uno dei caratteri della vita divina secondo tutti i mistici, da Diadoco di Foticea [Vescovo di Foticea in Trespotia (Epiro), verso la metà del secolo VI fu il continuatore dell’insegnamento di Evagrio e dello Pseudo Macario] fino a Rosmini, da santa Teresa di Gesù fino a Newman, è il senso della pienezza. Dice Rosmini nella Antropologia soprannaturale: «Quello che distingue l'esperienza religiosa cristiana è il senso del tutto, il sentimento del tutto: tu l'hai e tu vivi, tu non l'hai e vivi come uomo, non vivi ancora come cristiano, non vivi ancora come colui che ha ricevuto lo Spirito».
Ma che cosa vuol dire vivere in questo sentimento del tutto, in questa coscienza di assoluto? Vuol dire essere anche tu posseduto da Dio. E che cosa vuol dire essere posseduto da Dio? Una cosa semplicissima - se volete che vi dica le cose con estrema umiltà -, una cosa semplicissima: vuol dire non avere più egoismo, non essere più nostri, essere pienamente liberati da ogni riferimento a noi stessi, da ogni ricordo di noi stessi. Siamo Suoi, posseduti pienamente da Lui. Lo si possiede soltanto nella misura che siamo posseduti; noi dobbiamo lasciarci possedere e, per lasciarci possedere, non difenderci più, non riservarci più nulla; né un pensiero, né un sentimento; né un ricordo, né una preoccupazione, nulla, Né tantomeno l'affetto degli altri o la stima degli altri, né tantomeno tenere a quello che non è nemmeno così intimo a noi, come sono, appunto, i sentimenti altrui. Ma nemmeno a quello che è più mio, più intimamente legato a me. Vuol dire spogliarci di tutto, essere posseduti; e non posseduti soltanto alla superficie come io posseggo una veste, come il marito possiede la sposa, ma come Dio soltanto può possederci, in tal modo che anche il nostro spirito sia Suo e non vi sia volontà propria in me.
Tagliare la propria volontà
La vita divina, secondo i Padri del deserto, proprio in questo si misura: nella liberazione da ogni volontà propria, perché quello che è più proprio nell'uomo, quello di cui l'uomo non si spoglia mai nei confronti di un altro, è la sua volontà di uomo e in questo intimo centro non entra che Dio, Egli soltanto può possederti fino nell'intimo, così. Ed è per questo che possedere Dio vuol dire per te spogliarti anche di questo; tutta la tua volontà non è che puro abbandono, non è che volontà di essere presi, non è che volontà di essere posseduti, non è che volontà di morire a sé perché in noi non viva che Lui.
Ecco che cosa vuol dire, in fondo, possedere ed essere posseduti. Una liberazione totale da ogni egoismo, da ogni amor proprio, da ogni volontà propria, che è ancora di più che amor proprio, perché quando si parla di amor proprio s'intende sempre quelle reazioni che sono di carattere affettivo, si direbbe; la volontà è qualche cosa di ancora più forte, perché è più spirituale. Ogni liberazione dalla volontà propria è veramente una distruzione, si direbbe, dell'io.
Ciascuno di noi non dice "io", nessuno di noi dice "io"; ciascuno di noi non può dire che "tu" se veramente si ordina totalmente a Cristo. Nemmeno Dio dice "io", perché Dio anche nella sua intima vita dice: "Tu". "Tu", dice il Padre al Figlio, "Tu" dice il Figlio al Padre. Dio dice "io" soltanto in riferimento alla creazione, perché allora si chiude nella Sua solitudine. Ma quando Egli ama ("Propter nos et propter nostram salutem descendit de caelis")Egli si ordina totalmente all'uomo e l'uomo egualmente, nell'amore, nello Spirito Santo, a Dio soltanto si ordina e dice "tu". Qual è dunque il mio nome? Anche il mio Egli ha assunto; io sono Tu, sono precisamente questo riferimento puro, totale a un Dio dal quale voglio essere posseduto, al quale totalmente mi dono.
Ma per essere più semplici, più concreti, che cosa fare? Credere, credere veramente. Dio è presente, ma non presente come Creatore, è presente come l'Amore che ti ama e ti vuole per Sé, come Amore che si dona ed è tutto tuo, tutto alla tua portata.
Che cosa importa essere vecchi? Che importa essere stanchi? Tutto Dio è tuo, e puoi ballare tutto il giorno e tutta la notte. Dio è tuo; che importa essere quello che siamo? Quello che siamo è una cosa che interessa Lui, non interessa più te. Quello che interessa te, quello che è tuo è Dio l'Infinito, è Dio la giovinezza eterna, è Dio, la santità pura ed infinita.
Di fatto, tutto questo Egli ha vissuto, nel dono che Egli ha fatto di Sé, nel voler essere Lui posseduto, per possederci, nel volerci possedere per essere posseduto. Egli si è fatto uomo e ha preso la tua stanchezza e il tuo male, la tua morte e il tuo peccato, perché tu vivessi la sua vita divina. Ed è questo che tu devi vivere non domani ma ora e qui, perché non a domani Egli rimanda il Suo dono. Egli è lo Spirito e il nome dello Spirito è Donum Dei Altissimi. Non sarebbe più la terza Persona della Santissima Trinità se Egli non fosse dono e non volesse essere accolto, e non volesse che tu Lo accogliessi, perché divenisse tuo.
Credere dunque, ecco la prima cosa che s'impone, perché se crediamo viviamo anche questo dono di noi stessi a Lui, questo essere posseduti. Infatti la fede non è soltanto l'adesione a questa verità misteriosa ed immensa dell'amore divino, dell'amore personale di Dio che si dona tutto a te, ma è anche l'abbandono a questo amore. Credere vuol dire infatti abbandonarci - "credere aliqui" - e anche credere "in Deo"È sempre un moto di tutto l'essere verso Colui cui l'anima si dà.
Se noi viviamo questa fede noi viviamo tutta la vita, e si può dire veramente che tutta la vita cristiana non è che questo atto di fede. Non per nulla il cristiano è la sposa, e la sposa promette fedeltà allo sposo e ha la fede al dito come segno della sua unione col suo sposo. Anche tu non devi avere che questo anello, non devi portare che questo anello: essere fedele, credere, e credere sempre, in un atto continuo, che non è più ripetuto perché non è mai sospeso.

* * *


Casa San Sergio. Ritiro del 17 maggio 1959
Intenzioni della Messa
Perché lo Spirito Santo discenda sopra tutta quanta la Chiesa, sopra tutta quanta l'umanità, sopra tutta quanta la terra e dia alla Chiesa una perfetta giovinezza, all’umanità una vita più ampia e alla creazione di essere trasfigurata dalla gloria di Dio.
Perché la vita della Chiesa sia la manifestazione sempre attuale di questa divina presenza dello Spirito in lei; lo sia nella sua unità, che deve rifulgere ogni giorno più grande, più vera, lo sia nella rivelazione della sua cattolicità, lo sia nella rivelazione della sua santità, che sia ogni giorno più luminosa, più pura.
Che lo Spirito discenda sopra ciascuno di noi e doni all’anima nostra un desiderio più vivo di Dio, ci affami di santità, ci doni un incontenibile ardore, onde l’anima nostra si senta sempre come spinta da una forza divina verso una meta che rimarrà sempre trascendente, una meta che non potremo mai raggiungere ma che raggiungeremo tuttavia ogni volta che, uscendo da noi stessi nell’ardore del desiderio, ci protenderemo verso Dio.
Che questa Messa sia veramente l’oblazione pura di tutti noi che, divenuti una cosa sola con Cristo, nello stesso movimento di amore onde Egli eternamente si offre al Padre, ascendiamo fino a Lui, liberando il nostro cuore da ogni amore terreno, purificandolo da ogni imperfezione e peccato, rendendolo sempre più lieve, senza peso, sicché questa ascensione divenga ogni giorno più rapida, sicché questa fuga verso Dio divenga ogni giorno più veloce.
Perché lo Spirito Santo, Consolatore nostro, ci assicuri di una presenza divina anche quando noi ci sentiamo più soli, anche quando sentiamo di più la nostra povertà, il nostro nulla; anche quando ci appare più manifesto il fallimento di ogni nostra attività, di ogni nostro sforzo anche nella vita spirituale. Che Egli ci conforti, ci dia sicurezza anche quando tutto sembra fallire. Che Egli ci dia luce, che Egli ci dia gioia, e dia luce e gioia ad ogni anima che cerca il Signore. Viva Egli nel cuore di tutti gli uomini, che pur non conoscendo Dio lo cercano e lo implorano, che pur non conoscendo Dio si aprono alla sua rivelazione nell’umiltà e nell’amore.
Che noi sentiamo Dio all’opera, in questa creazione che Egli va suscitando dagli abissi della colpa e del male! Che noi sentiamo questo Dio all’opera in ogni cuore umano e ci doniamo, ogni giorno di più, a Lui perché si serva di noi come collaboratori suoi a questa opera immensa di trasfigurazione dell’universo! Che - come dice il Cantico di san Sergio - battezzati da questo fuoco divino, illuminati da questa luce, diveniamo noi tutti trono della Divinità, strumento della divina onnipotenza, pura rivelazione di Dio. Amen!
Omelia
Il dono dello Spirito Santo
Pentecoste. Che grande gioia esser con voi in questo giorno! È la festa dello Spirito di Dio, dello Spirito Santo. Non la festa della Terza Persona della Santissima Trinità in quanto procede dal Padre e dal Figlio, o dal Padre per il Figlio, nel mistero intimo della vita divina, ma la festa dello Spirito in quanto lo Spirito ci è stato donato e si è diffuso sopra la terra, in quanto lo Spirito è il dono di Dio, il dono che Dio ci ha fatto di Sé per vivere Egli stesso nei nostri cuori.
È la festa che porta a compimento i disegni di Dio: nel dono dello Spirito veramente si compie l’incontro di ogni anima con Dio. Non si compie soltanto un incontro, si realizza un mistero, il mistero di una partecipazione personale di ciascuno di noi all’intima vita di Dio. Nel dono dello Spirito noi siamo stati attratti nel seno della divina Trinità, noi siamo divenuti della famiglia stessa di Dio; non più soltanto chiamati remotamente a questa vita divina, ma già partecipi di essa nel segreto più profondo della nostra natura. Nel dono dello Spirito si compie davvero una creazione nuova, più mirabile e grande della prima. Di fatto, la prima creazione altro non è che pura condizione a questa elevazione che Dio compie di noi, facendoci tutti partecipi di Sé. La natura, l’esistenza che abbiamo ricevuto come creature, per noi specialmente che Dio ha voluto dotare di uno spirito, non sarebbero stati che coscienza ed esperienza di miseria e di morte.
Siamo fatti per Dio
Certo, la creatura è sempre qualche cosa di bello e di grande ma che cosa serve lo spirito umano se non precisamente a dire all’uomo i suoi limiti? A che cosa serve questa vita quaggiù se non a farci sentire la nostra impotenza ad abbracciare l’universo? Com’è possibile che un uomo sia contento di essere solo uomo? Son grandi cose quelle che Dio ci ha dato, anche come semplici creature, ma la nostra grandezza si misura precisamente da questo: che l’uomo esplora e raggiunge ben presto i suoi limiti. Lo spirito è stato creato perché potesse obbedire a un Dio che lo voleva chiamare a una vita immensamente più alta e più grande, alla Sua medesima vita. Dicono i teologi che, certo, vi sarebbe stata una felicità naturale anche per l’uomo, anche se non fosse stato elevato all’ordine soprannaturale. Ma rimane vero, secondo san Tommaso d’Aquino, che anche nella pura natura rimane nel cuore dell’uomo un desiderio naturale di vedere Dio che non potrebbe mai essere appagato se Dio misericordiosamente non volesse ascoltarlo. Ma questo desiderio che Egli ha acceso nel cuore dell’uomo, ecco, trova nel dono che Dio fa di Sé la risposta divina: Dio ha voluto che noi fossimo uno spirito aperto all’ineffabile grandezza divina, uno spirito aperto ad accogliere Lui, che voleva donarsi.
Diceva Dio Padre a santa Caterina da Siena: «Io sono un infinito in atto, tu sei un infinito in potenza». Questo è l’uomo: un infinito ma in pura potenza, un infinito che attende, un vuoto immenso che ha da essere colmato e non può esser colmato che da Dio.
E noi siamo chiamati stamani ad aprire l’abisso della nostra anima per accogliere Dio in noi: accogliere questo amore immenso, infinito, accoglierlo per sentirci “ripieni”. È proprio questa l’espressione che ritorna durante la festa della Pentecoste: «Repleti sunt omnes Spiritu Sancto», «Replevit totam domum ubi erant sedentes». Egli sempre riempie di Sé: Dio solo può riempire. Ecco il Mistero della Pentecoste. L’abisso infinito del nostro nulla che aspetta la grazia, il nostro cuore si apre all’amore divino perché Dio voglia effondersi in lui, ed ecco che nel dono che l’anima riceve, l’uomo si sente ripieno: ogni suo desiderio è stato più che colmato dal dono che Dio ha fatto di Sé, ogni speranza è stata superata e trascesa, ogni aspettativa vinta dall’amore divino.
Dio stesso è venuto. Non verrà soltanto domani: la vita del cristiano è esperienza di un dono presente. Noi viviamo il dono di Dio nel mistero di una povera vita, nel mistero di un’intima sofferenza ma anche già viviamo il dono di Dio nel possesso ricolmo di una beatitudine immensa. Siamo veramente ripieni.
Esperienza di pace
Che cos’è la pace che Gesù ci dona lasciandoci, se non precisamente il suo Spirito, o almeno il frutto di questa presenza dello Spirito nel cuore dell’uomo? Come potrebbe l’uomo aver pace se non fosse saziato nella sua brama, se non fosse ricolmato nel suo vuoto? La pace è il segno di questa divina pienezza che il cuore umano possiede e noi possediamo la pace, segno intimo di una divina presenza, segno che ci garantisce, ci assicura questa presenza divina. Possediamo e viviamo la pace che nulla potrà mai compromettere: non le sofferenze fisiche, le sofferenze morali, né l’abbandono degli uomini, neppure le umiliazioni di fronte agli altri o le nostre stesse miserie che son tanto grandi. Nulla può compromettere la nostra pace, perché la nostra pace non ha la sua origine in noi, ma in una Presenza che rimane perché questo è il Mistero della Pentecoste: Egli non discende, è disceso, Egli rimane. Il Mistero della Pentecoste è un mistero permanente.
Il giorno della Pentecoste non conobbe declino, non fu superato. In quel giorno il mondo tutto entrò nella divina eternità. Ora il tempo, sì, scorre, ma scorre alla superficie, come l’olio sull’acqua. La creazione intera nel suo intimo valore, nella sua intima vita, non sottoposta ai cambiamenti del tempo, non è più trascinata, portata via dall’onda continua di un tempo che fugge. Dio dimora in noi e noi dimoriamo in Lui nella pace, noi viviamo l’eternità stessa di Dio. Pur vivendo giorno per giorno avvenimenti che sembrano uguali e diversi perché si succedono in un ritmo continuo, pur vivendo in questo tempo che scorre, la nostra anima già è ancorata all’eternità perché Dio è in lei e lei è in Dio. Il tempo è finito già: ve ne rendete conto? Vi rendete conto che davvero il Paradiso è incominciato per noi? Basta che l’anima affondi in questo intimo centro in cui Dio si è fatto presente perché tutte le onde del tempo non raggiungano più l’anima che vive in una immutabile pace il dono divino; basta che l’anima affondi in questo intimo centro in cui Dio si fa presente per essere la sua ricchezza e il suo amore, per essere la sua gioia e il suo riposo.
Se noi non viviamo la pace è perché noi ancora viviamo fuori mentre Egli è dentro. Se noi siamo ancora turbati è perché l’anima nostra ancora o non ha accolto Dio oppure non è ritornata in sé. Non lasciamoci trascinar via dalle cose, rimaniamo immutabili come i beati nella visione di Dio, immobili nella purezza della visione, manteniamo la nostra anima nello stupore e nella gioia del divino possesso. Sta a noi vivere ora la vita del cielo, non sta più a Dio, perché Dio già si è dato. Se non viviamo già in Paradiso la colpa non è delle cose, e tanto meno è di Dio: la colpa è soltanto nostra che ancora viviamo al di fuori.
«È bene per voi che io me ne vada...»
Pura ed immensa la vita di Dio già fiorisce nel cuore, già è sbocciata nell’intimo centro dell’anima, e tu, ecco, puoi possederla, di un possesso che è veramente fruizione, che è veramente esperienza di pace e di gioia. Non forse Gesù ci ha detto che il dono dello Spirito sarebbe stato il dono del Consolatore, del Paraclito? Quale consolazione Gesù ci dà: se ne va per consolarci! Ma è precisamente questo l’insegnamento più grande della Pentecoste: la consolazione che ci deriva dallo Spirito importa precisamente che l’anima si sottragga all’apparente, alla pura esperienza sensibile delle cose. Gli apostoli conobbero lo Spirito, il Consolatore, quando Gesù se ne fu andato. La loro gioia divenne perfetta proprio nell’ora in cui Gesù non era più con loro.
Quale mistero! È il mistero della nostra vita presente. «Beati coloro che non videro e credettero» (Gv 20,29). Se noi affidiamo la nostra gioia, la nostra beatitudine, ai segni esteriori, la nostra beatitudine non sarà mai quella di Dio. Solo ritornando nell’intimo fondo della nostra anima possederemo la pace; sottraendoci all’apparenza sempre cangiante dei segni noi possederemo non più i segni - che hanno sempre in sé qualche cosa d’ambiguo, rivelano ma anche nascondono - ma quella pace che è la pace di Dio senza segni. Dio è in noi, ma non è in noi soltanto per esser presente: Egli è in noi per donarsi. Il Vangelo di oggi ci ha detto che se noi ameremo Gesù, Egli stesso ci amerà e il Padre e Lui verranno in noi e faranno in noi la loro dimora.
Ma questa presenza di Dio in noi non era già un fatto, una realtà indipendentemente dal mistero della grazia? Non è Egli presente in tutte le cose? Di che presenza si parla? È una presenza che importa qualche altra cosa che la pura dimora: Egli viene per donarsi, Egli viene in quanto si dona, Egli viene in quanto vuol essere posseduto, Egli viene in quanto vuol essere principio di una nuova vita. Per questo vengono il Figlio e il Padre nel dono dello Spirito. «Chi mi ama osserverà la mia parola, e anche il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui».
Il Padre ci ama nello Spirito Santo, dice san Tommaso d’Aquino. È nel dono dello Spirito che anche il Figlio e il Padre per concomitanza vengono in noi, nel dono medesimo. Vengono in noi in quanto Dio si dona per essere principio di una vita nuova. Ecco, in noi abita Dio, abita in noi come sorgente d’inesauribile vita, come principio di una creazione immensamente più grande e più bella di quella che i nostri occhi contemplano. Egli è in noi come principio di una operazione divina che è la trasfigurazione stessa della creatura divenuta partecipe di Dio.
Vivere la vita trinitaria
Non soltanto noi siamo ripieni dello Spirito Santo: Egli colma ogni nostro desiderio, Egli ci fa strumenti di vita, Egli in noi diventa principio di vita. Poco fa parlavo di viver la vita dell’eternità: ma che cos’è la vita dell’eternità? Che cosa se non la vita di Dio? Qual è la nostra vocazione? Quella di viver la vita trinitaria: non c’è altra vocazione che questa. Ognuno di noi è chiamato a vivere la vita di Dio. E la vita di Dio è la Santissima Trinità, sono le processioni divine. La nostra vocazione è questa. Non è quella di fare scuola, di mandare avanti il laboratorio, di lavorare in casa, di badare ai bambini; la nostra vocazione non è nemmeno la semplice preghiera. La nostra vocazione è Dio stesso, è essere Lui, vivere Lui. La nostra vocazione a questo ci chiama.
Nel dono dello Spirito, ecco, noi entriamo davvero a far parte della vita di Dio. Dio diviene in noi principio di vita, dicevo. In che modo? Proprio perché lo Spirito Santo prolunga in noi il Mistero dell’Incarnazione divina e, prolungandosi in noi il Mistero dell’Incarnazione divina, noi siamo uniti a Cristo, e uniti a Cristo noi viviamo la relazione del Figlio al Padre Celeste. Tutta la vita trinitaria si svolge nell’intimo dell’uomo, si svolge nell’intimo della creazione; Dio non è più al di fuori del mondo, Dio non è più estraneo, trascendente all’uomo, è più intimo a lui di lui stesso. Non soltanto come creatura, si noti: non in quanto ci dona una vita umana, una natura umana, ma in quanto Egli è principio di vita divina.
E se è nello Spirito Santo che si opera il mistero del nostro inserimento nella vita divina, che cosa si impone per noi? Tante volte si è detto e non sarà male ripeterlo stamani, anche con una sola parola: s’impone la pura, umile docilità, che l’anima si abbandoni serenamente, dolcemente, pienamente, all’azione segreta di questo Spirito divino.
Ogni nostro agire è dallo Spirito
Ma come facciamo a sapere quando Dio opera e quando Dio ci muove, così da abbandonarci al Signore? Si è già detto: Dio è intimo a noi più di noi stessi. Tutto quello che in noi vi è di non peccaminoso deriva dallo Spirito. Dio in tal modo si nasconde nell’essere umano che proprio la psicologia stessa dell’uomo diviene segno di vita divina. La vita mistica che cos’è? Mica il mistico trascende la propria esperienza umana per raggiungere Dio, ma è nella sua esperienza umana, nell’intimo della sua intelligenza, nel movimento del suo cuore, che egli avverte una presenza attiva di Dio, che egli fa esperienza di questa intima vita di Dio. Non è la vita di Dio questa intuizione che il mistico ha, non è la vita di Dio questo amore che l’anima sperimenta, ma questo amore, questa intuizione, sono precisamente il segno di una operazione più misteriosa e segreta che rimane per noi quaggiù nella vita presente del tutto intangibile ancora.
Dio agisce attraverso le nostre stesse potenze: Dio ama attraverso il nostro cuore, Dio vede attraverso la nostra intelligenza. In tutto quello che noi viviamo, noi viviamo una vita soprannaturale. Non si vive una vita soprannaturale soltanto quando noi preghiamo o quando facciamo un atto di virtù ed espressamente ci impegniamo ad amare il Signore; nessun atto dell’uomo che viva in grazia è un atto puramente umano. In ogni atto dunque, all’intimo, nella sua più intima scaturigine, noi troviamo lo Spirito di Dio che muove le umane potenze.
Non dobbiamo soltanto avere riverenza di noi, del nostro corpo come tempio della Divinità; è troppo poco questo, perché tale modo di vedere le cose suppone una presenza statica di Dio in noi, suppone perciò anche una certa divisione di Dio e dell’uomo, come Egli è separato dalla pisside che lo contiene nel Sacramento. Non così Dio abita nell’uomo: la presenza di Dio in noi è dinamica, dicevo. Quale riverenza dobbiamo avere di noi! Ogni nostro atto, in ultimo, è atto divino nella sua più intima scaturigine, nel suo primo principio: è Dio che ci muove. E non ci muove soltanto come Creatore, ci muove come Santificatore, come Colui che trasfigura la nostra natura e attraverso la nostra vita ci solleva, ci esalta.
Essere profeti dello Spirito
Rendiamoci conto di questo. Non abbiamo da cercare Dio soltanto nelle grandi occasioni, nei grandi sentimenti, nelle intuizioni, nelle illuminazioni straordinarie; vi è continuità fra la vita umana più povera e la vita del mistico più alto. Una continuità onde Dio non interviene soltanto a un certo stato della vita spirituale ma fin dagli inizi, appena Egli è presente nel cuore dell’uomo. Tutta quanta la vita dell’uomo è lievitata nell’intimo, sollevata ed animata nell’intimo, essendo lo Spirito principio, sostegno e termine ultimo di ogni atto umano.
Quale riverenza! Sentirci strumento di Dio, sentirci come il pennello nella mano dell’artista, come la penna in mano dello scrittore! Quale riverenza, quale abbandono, quale umiltà l’anima non deve possedere! È questo che deve distinguere la spiritualità moderna, la devozione allo Spirito Santo. È tale devozione che deve distinguere l’era messianica. Ed è essere strumenti dello Spirito che distingue precisamente coloro che in questa era messianica sono entrati veramente.
Ognuno di noi deve esser profeta; tutti dobbiamo conoscere Dio per un’intima esperienza, per un intimo possesso di Lui. Non dobbiamo chiedere a nessuno chi è Lui, perché dobbiamo conoscerlo già per un’intima conoscenza, una conoscenza che a Lui ci assimila e in Lui ci trasforma. «Non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa, è veritiera e non mentisce, così state saldi in lui, come essa vi insegna» (1Gv 2, 27), dice l’Apostolo Giovanni nella sua prima lettera. San Pietro negli Atti degli apostoli dirà: «Accade invece quello che predisse il profeta Gioele: “Negli ultimi giorni, dice il Signore, io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno”» (At 2, 16-18). Profetizzare vuol dire essere veramente strumenti di un’azione divina. Il profeta è lo strumento onde Dio opera, parla, agisce, fa la storia umana. Dio vive attraverso di noi.
Ecco la nostra vocazione: lasciar libero Dio attraverso le nostre potenze, attraverso il nostro corpo - mani, piedi, cuore, volontà - attraverso la nostra anima. Che viva Dio, Lui solo, che ami Dio, Dio solo, che Dio contempli e sia Lui solo il contemplato da noi, che viviamo la sua medesima vita.
Vorrei che durante la Messa, in modo particolare durante la Consacrazione, l’anima si donasse totalmente allo Spirito così che, come per opera dello Spirito si fa presente Cristo sotto le specie del pane, così in Cristo voi vi trasformiate, per opera del medesimo Spirito. Viva in noi tutti Dio solo!
Prima meditazione
Cosa significa adorare lo Spirito Santo?
Che cosa vuol dire per noi, praticamente, avere la devozione allo Spirito Santo? Prima di tutto credere a questa presenza attiva di Dio nel cuore della creazione, nel seno della Chiesa, nell’intimo dell’anima dell’uomo. Credere davvero che Dio è all’opera oggi come al principio dei giorni, anzi più di quanto non fosse quando creava le cose. Credere veramente che questa azione divina sollevi tutta la massa umana, ordini tutta la vita del mondo alla sua trasfigurazione finale, a una glorificazione dell’universo, onde l’universo tutto deve divenire, al termine, una rivelazione della gloria divina. Vuol dire soprattutto credere che questo divino Spirito agisce nel modo più segreto, più intimo ma più efficace in seno alla Chiesa, e fa servire ai suoi piani anche gli errori degli uomini, anche le loro limitazioni, le loro debolezze, i loro stessi peccati. Vuol dire credere che anche nel cuore di ogni uomo lo Spirito Santo è all’opera, per continuare, per prolungare in lui e in tutta quanta la Chiesa, attraverso tutti i tempi, il Mistero di una Incarnazione divina che è l’assunzione della natura creata da parte di Dio, un’assunzione onde la natura creata viene ad essere nella più intima unione con la Divinità. Credere soprattutto che se Egli è nell’intimo del nostro cuore ed è Lui che ci muove, ci sostiene, ci illumina, ci conduce nelle sue vie, può sempre rimediare ad ogni nostra stortura, ad ogni nostro peccato, onde è possibile sempre, non solo una nostra salvezza, ma anche che gli errori passati divengano ora condizione di più alta e magnifica vita, di più alta gloria di Dio.
Siamo il santuario dello Spirito
Ora, è precisamente questo che molto spesso ci manca. La nostra fede è una fede astratta, atto dell’intelligenza che aderisce a una verità che non ha riferimento con noi, atto dell’intelligenza che aderisce a un mistero del quale sembra a noi di non far parte, che ci sembra non soltanto distinto da noi, ma assolutamente estraneo alla nostra povera vita, alla nostra povera anima.
La devozione allo Spirito Santo riconduce la verità del Mistero cristiano nel nostro cuore, fa di questo Mistero il mistero della nostra stessa esistenza, della nostra medesima vita. Perciò la devozione allo Spirito Santo prima di tutto vuol dire credere in Dio, credere in Cristo, credere nella Chiesa, ma credere in un Dio che è prossimo all’uomo, che è divenuto per l’uomo principio di vita, ragione della propria esistenza, fine ultimo nel quale la nostra esistenza trova riposo. Vuol dire credere in un Dio che non ti abbandona mai, che ti ama in tal modo che Egli, se tu crederai, avrà sempre vittoria: vittoria sulle tue imperfezioni, vittoria sulle tue impotenze, vittoria sui tuoi stessi peccati. Credere vuol dire non sentirci mai soli, ma sentirci piuttosto coadiuvati da una onnipotente e infinita sapienza, sostenuti da un amore indefettibile e immenso.
Chi di noi crede questo? Quanto spesso il mistero nel quale crediamo è un mistero dal quale noi ci sentiamo come esiliati. In fondo, ogni nostra esitazione, ogni dubbio, ogni scoraggiamento, ogni sgomento dell’anima di fronte alle esigenze divine non sono che una infedeltà, non sono che un atto di incredulità in questa azione costante di Dio nel cuore dell’uomo. Avere la devozione allo Spirito Santo vuol dire sentirci come invasi da ogni parte, da ogni parte penetrati da un’azione segreta, sì, ma onnipotente, continua, divinamente efficace e infinitamente amorosa. Che cosa, di fatto, dice la misura della nostra santità, se non precisamente questa nostra fede così povera, così debole, così intermittente, onde siamo noi a chiudere le porte del cuore al Signore, onde siamo noi che ci sottraiamo, sottraiamo le nostre potenze facendo sì che esse non siano più strumento di questo amore dolcissimo? Devozione allo Spirito Santo vuol dire: non credere più che vi sia per noi una impossibilità, un limite ai nostri desideri, una misura alla nostra santità, un termine ai nostri poteri. Vuol dire far credito a Dio, vuol dire sentirci veramente abitati da questa forza divina, personale, intima, efficace.
Limite allo Spirito è la nostra fede
Ma vedete: precisamente perché questa fede non è più l’atto di una intelligenza che aderisce a una verità astratta, a una verità che ci è estranea, ma è l’adesione dell’anima a un mistero che è il mistero della nostra medesima vita soprannaturale, appunto per questo la fede non può essere altro che il mettersi a disposizione di questa forza, l’abbandonarsi docilmente, totalmente, pienamente, amorosamente a questa divina potenza che vive in noi, che si agita in noi, che da noi vuol prorompere, in bellezza e gloria, in fulgore di santità. Quante volte ci vien fatto di pensare che tutto quello che si dice essere il messaggio cristiano sia, non dico favole, ma tuttavia esagerazioni, e che in fondo noi dovremmo contenere il messaggio cristiano a un insegnamento di rettitudine morale, di modestia, di pietà, diffidando di quanto vi è in esso di più grande, di più vero, di più alto? Diffidiamo. E il messaggio cristiano diviene soltanto parole. Quante parole! Parole che non creano, parole che rimangono puro suono di voce, bellezza oratoria, poesia, e non parola creatrice, di vita e di santità. Quante volte mi son domandato se io credevo! E debbo rispondere che non lo so. Ma non so nemmeno se voi credete, e non so nemmeno se vi è uno che crede. Sì, san Francesco forse. Si parla di eroismo della fede nei santi; ma è il minimo che possono dare! Se di fronte a un messaggio cristiano che ci parla dell’amore di Dio, che ci parla di un Dio che si fa uomo, che ci parla di un Dio che muore per l’uomo, di un Dio che si fa cibo dell’uomo, forza dell’uomo, luce dell’uomo nello Spirito, che cosa è mai la fede anche dei più grandi santi? Che cosa spera san Giuseppe Benedetto Cottolengo da Dio? Qualche marengo d’oro. E che cos’è? Certo, noi siamo molto inferiori a san Giuseppe Benedetto Cottolengo, intendiamoci. Ma che cosa sono i marenghi d’oro che può sperare san Giuseppe Benedetto Cottolengo di fronte a questo amore infinito? Perché ci sentiamo così piccini? Perché limitiamo così i nostri desideri?
Il vero senso dell’umiltà
Ma l’umiltà, al contrario, non vuole precisamente lo spezzarsi della fiducia in noi stessi? Non opera precisamente questo annientamento di ogni nostra fiducia perché noi possiamo abbandonarci, finalmente e pienamente, all’azione di Dio, all’azione di un Dio che ci ama, di quel Dio che ha creato i mondi e vuole che i mondi siano la pura rivelazione della sua gloria? No, veramente, io ritengo che chiunque di noi non pensi, non voglia diventare più grande di san Francesco, non crede affatto in Dio. Sono parole molto dure quelle che vi dico, ma mi sembrano vere. E non c’è altra verità di questa. Perché se ci crediamo davvero che Dio ci ama, come possiamo noi pensare che Dio debba soltanto aiutarci per farci un po’ più bellini, insomma, per essere un po’ più pii, per cercare di limitarci nel fare gli atti di impazienza? Pensate che cosa tremenda è mai questa! A che cosa noi riduciamo Dio! Come lo limitiamo, lo mortifichiamo, pretendendo da Lui soltanto questo, che Dio ci debba servire per fare un atto di impazienza di meno! Che Dio debba servirci e non che debba vivere in noi, che debba operare in noi per creare un mondo nuovo di santità e di gloria, un mondo nuovo di bellezza e di purezza infinita!
Devozione allo Spirito Santo allora vuol dire credere in Dio ma in un Dio che è veramente dono all’uomo di Sé: dono vero, dono reale, dono di cui devi entrare in possesso, dono di cui non puoi entrare in possesso senza essere tu santo della stessa santità di Dio, grande della sua medesima grandezza, puro della sua stessa purezza infinita, potente nella tua vita e nelle tue opere così come onnipotente è Dio. Non estinguete lo Spirito, non contrastate lo Spirito, ci dice san Paolo (cf. 1Ts 5, 19). Noi lo facciano tutti i giorni, perché costringiamo Dio alle nostre miserie, perché lo vogliamo comprimere nelle nostre povere idee, nei nostri piccoli disegni. Ma non è Lui che dà un limite a noi, siamo noi che continuamente poniamo a Lui dei limiti nella nostra misera fede.
Aprirsi all’onnipotenza di Dio
Credere! Ogni mio atto deve essere atto divino. E se veramente in ogni mio atto devo vivere la vita di Dio, in ogni mio atto deve vivere l’immensità del suo amore, la pienezza della sua gioia, la sua eternità. Debbo in ogni istante cercare di adeguarmi all’infinità di Dio, o almeno, se non posso così adeguarmi alla sua infinità da divenire io Dio stesso, devo abbracciare tutte quante le cose, debbo dilatarmi quanto tutta la creazione. Perché di fronte alle scoperte moderne noi rimaniamo un po’ sgomenti, un po’ smarriti, ci sembrano cose grandi? Ma che cosa mai sono tutte le scoperte degli uomini! Poter anche andare negli astri, avere a proprio servizio le leggi dell’universo: che cosa è mai tutto questo se noi lo poniamo a confronto dell’atto dell’anima che crede e si abbandona all’onnipotenza divina, sicché questa onnipotenza per mezzo dell’uomo opera? Che confronto, che proporzione vi può essere fra queste scoperte, fra queste attività e l’atto del cristiano che ama? Ma vi è un confronto e una proporzione tutta a nostra svantaggio, nonostante tutto, perché noi vogliamo ridurre Dio, come dicevo, alla nostra misura.
Quando nascerà un santo che veramente si lasci totalmente prendere da Dio, possedere da Lui così da divenire egli stesso lo strumento per il quale Dio anche oggi fa presente la redenzione universale del Cristo, la fa presente e l’applica, la fa presente e la realizza? Non in atto primo, ma in atto secondo, facendo sì che tutta quanta l’umanità che ora è travagliata come da un pericolo di morte si rinnovi, respiri, ringiovanisca, si apra a nuovi ideali di bellezza e di gloria, di luce e di santità.
Credere, dicevo. La devozione allo Spirito Santo vuol dire prima di tutto credere. Credere in questa presenza attiva di Dio nel cuore del mondo, nell’intimo dell’anima umana, nell’intimo dell’anima di ciascuno di noi. Non si può separare l’azione di Dio nella Chiesa dall’azione di Dio nel cristiano. Dio che è al lavoro in seno alla Chiesa è il medesimo che è al lavoro nella mia anima. Questa dottrina è una delle più feconde e delle più importanti per la nostra vita spirituale.
Sentire cum Ecclesia
Lo Spirito di Dio non agisce nel seno del cristiano solo in quanto questi fa parte della Chiesa: è tutto nella Chiesa ed è tutto in ogni anima. E allora ne deriva che vi è un segno, una garanzia all’azione dello Spirito che agisce in noi, nel fatto che l’azione dello Spirito nell’uomo è conforme a quella che lo Spirito stesso esercita in tutta la Chiesa. Lo Spirito non soltanto risiede nei nostri cuori ma ci fa strumenti di una redenzione universale, collaboratori del Regno di Dio; e ciò non per il fatto che, facendo parte della Chiesa, siamo chiamati a lavorare per essa, no! Lo Spirito vive in noi realizzando in noi tutto il Mistero cristiano. E la garanzia di questa sua azione è la conformità con l’azione che esercita in tutta la Chiesa.
Perciò la devozione allo Spirito Santo è legata al “sentire cum Ecclesia”, non per una mia adesione esterna, per un mio piegarmi a esigenze esterne, ma perché lo Spirito che è in me è anche l’anima di tutta la Chiesa, e la sua azione in me non può essere diversa dalla sua azione nella Chiesa.
Perciò la devozione allo Spirito Santo non porta ad una anarchia religiosa, a un mio sottrarmi alla Chiesa: la vita che lo Spirito Santo ci dona è personale e intima ma è la vita di tutta quanta la Chiesa. Non c’è contrapposizione fra vita personale e vita sociale nella Chiesa: l’una è l’altra, e soltanto essendo l’una essenzialmente l’altra, esse sono garantite come vita che ha il suo principio nello Spirito Santo, perché lo Spirito Santo è principio della vita sia nell’uomo che nella Chiesa. È il medesimo Spirito che ci è stato dato ed è intimo a ciascuno di noi. Di qui deriva che noi non siamo parte di un tutto ma ognuno di noi è veramente il tutto: io devo vivere tutta la vita, tutto il mistero. Siamo membra del Corpo Mistico e ognuno di noi è Cristo.
Essere Uno nell’unità universale
Esigenza di vivere questa pienezza di vita! Se la devozione allo Spirito Santo vuol dire credere, dobbiamo credere allo Spirito che realizza in noi questo mistero, sì che tutto il mistero cristiano non è più esterno all’uomo: lo trascende ma è nell’uomo. Né Dio, né l’Incarnazione, né la Trinità né la Chiesa sono estranei a me: essi sono misteri della mia vita anzi, sono il mistero della mia vita. Non è detto che, se io non sono Dio, Dio non sia: Dio è, indipendentemente da me e questo vale per tutti i misteri. Ma è anche vero che Dio per me non è se non nella misura che vive in me; la Trinità per me non è che nella misura che io la vivo. Così, l’Incarnazione per me non è che nella misura che io la realizzo con tutto il mio essere. Anche la Chiesa per me non è che in quanto io son tutta la Chiesa. E io devo risolvere nella mia vita intima quel che la Chiesa deve risolvere nell’universo: il problema dell’unità. Io devo vivere la vita religiosa di tutti i popoli, farmi intimo alla vita religiosa di ciascun popolo per cristianizzarlo in me. Tutto devo far mio perché in me tutto divenga Cristo. La Chiesa per me non è che in quanto io sono la Chiesa, in quanto io vivo in me la sua vita. Devo tutto abbracciare, tutto amare, in modo che in me tutto divenga Cristo. Questo vuol dire la devozione allo Spirito Santo: affidarmi a questa azione perché realizzi questo mistero in me.
Certo, è molto grande quello che lo Spirito Santo ci chiede: se nel giorno della Pentecoste noi imploriamo che lo Spirito Santo scenda su di noi, noi chiediamo che si compia in noi quel che si compì nel seno della Vergine. Lo chiediamo ciascuno per sé, lo chiede ciascuno di noi perché si compia nella Chiesa, giacché non si può separare quello che è personale da quello che è ecclesiale. Non può essere strumento della Chiesa chi non si dona allo Spirito Santo perché il medesimo Spirito in lui agisca.
Io non vivo nella Chiesa esteriore che nella misura che lo Spirito Santo vive in me personalmente. Se la Chiesa cessasse di essere santa, santa anche nelle sue membra, essa non sussisterebbe. Origene dice: «Temo che la Chiesa non possa più rimettere i peccati perché non ha più martiri». Questo non è vero, perché nella Chiesa ci sono tanti martiri ignorati, però è vero che la Chiesa ha la sua garanzia nella santità dei suoi membri. Essa dimostra di essere animata dallo Spirito Santo nella santità dei suoi membri e viceversa.
Seconda meditazione
Lo Spirito non fa distinzioni di condizione
Credere. Ecco che cosa soprattutto esige da noi l’essere devoti allo Spirito Santo. Credere in questa azione di Dio, efficace, intima all’uomo, amorosa, sapiente, con una fede che è puro, pieno abbandono di tutto l’essere, che è sicurezza, pace e gioia. Si diceva stamani che nessuna difficoltà è insuperabile, nessun peccato irrimediabile, nessuna povertà è ostacolo o impedimento: nell’istante medesimo che a Dio ti abbandoni Egli ti prende, tu sei posseduto da Lui, e allora, ecco, Egli agisce per te, vive in te, diviene la tua forza.
Perché pensare sempre alla propria impotenza di peccatori? Chiuderci in noi stessi, ripiegarci nel sentimento della propria miseria, non è un offendere Dio che si è fatto uomo per essere la nostra salvezza? Non è un offendere quel Dio che si è fatto uomo per darsi a noi, per far vivere in noi lo Spirito Santo? La grandezza del dono divino ci impedisce piuttosto di fare delle differenze, dal momento che una differenza essenziale non c’è fra una condizione di vita e l’altra, fra uno stato di vita e l’altro, fra avvenimenti e missioni. No, veramente e con piena semplicità possiamo crederlo: non vi è differenza essenziale fra essere poveri o ricchi, spazzini o Papi, fra essere nel dolore o nella gioia. Tutto quello che è umano è una pura scorza per rinchiudere l’immensa ricchezza che rimane per tutti identica: Dio stesso. La tua povertà, il tuo nulla, non ti impedirà mai di essere santo, non t’impedirà mai di essere veramente grande della grandezza stessa di Dio che vive in te; se Dio veramente a te si dona tu possiedi Lui e allora vivi in ogni istante la vita del cielo.
Non cerchiamo i doni di Dio ma il Dio dei doni
Devozione allo Spirito Santo vuol dire precisamente questo. Il “Veni, Sancte Spiritus” è una bellissima preghiera, tuttavia mi sembra che impicciolisca, in fondo, il Mistero della Pentecoste. Non si tratta soltanto di ringraziare Dio per quello che l’anima esperimenta in questa sua presenza attiva nel cuore: un calore, una certa gioia, una certa dolcezza. Che cos’è tutto questo? Non c’è differenza essenziale fra il senso di una desolazione intima e dolorosa e questo senso di pace e di gioia che l’anima alcune volte può provare, purché l’una e l’altra di queste esperienze siano un segno per l’anima di un vivo possesso.
Se il Signore dunque non vuole irrigare quello che è arido, non vuol darci la consolazione nel momento della tristezza, sia Egli benedetto, perché non sono i suoi doni che vogliamo, ma Lui solo. Ed è nel possesso di Lui che l’anima nostra deve trovare la propria felicita; ed è nel possesso di Lui - indipendentemente da ogni esperienza intima - che l’anima deve conoscere la sua divina presenza, una pienezza che, certo, l’anima non sempre esperimenta, ma che è sicura di avere. Ed è in questa sicurezza, in questa fede, che avrà sempre il potere di superare l’intimo disagio, la stanchezza, lo scoraggiamento, l’avvilimento, che umanamente deriverebbero dalla sua pena. E avrà sempre in questa sicurezza e in questa fede la capacità e la forza di non esaltarsi nella gioia, perché le pene, le tribolazioni, non escludono la presenza dell’amore. E così la gioia non ci deve mai esaltare, quasi noi fossimo qualche cosa indipendentemente da Dio, quasi noi potessimo affidarci ai nostri poteri, ai nostri sentimenti, alle nostre azioni, quasi noi fossimo qualche cosa senza Dio, quasi potessimo qualche cosa indipendentemente da Lui, senza affidarci al suo perdono misericordioso.
Umiltà e pace. Viviamo in questa sicurezza intima della divina presenza, sicché le cose umane, gli avvenimenti umani non tocchino, o almeno, non turbino mai il nostro spirito. Viviamo in profondità. Il mare, se pure le tempeste lo agitano, nel profondo rimane immobile; così l’anima nostra nel suo profondo conserva sempre la pace. Viviamo in ogni istante la vita dell’eternità; che in ogni istante l’anima nostra si sottragga al movimento del tempo per affondare nella pace dell’Eternità; che in ogni istante l’anima si apra e si dilati per accogliere in sé l’immensità stessa di Dio. Che in ogni istante l’anima viva nella purezza e nella santità divina.
A questo ci prepara la devozione allo Spirito Santo, perché la devozione allo Spirito Santo altro non è che la docilità e l’abbandono a Dio, perché Egli non soltanto abiti in noi ma in noi viva e sia Lui la nostra medesima vita.
Come agisce in noi lo Spirito?
In che modo lo Spirito Santo agisce nell’anima? Vorremmo capirlo per poterci abbandonare a Lui ma l’azione divina non ha modi. Sarebbe azione divina l’azione che avesse dei modi? I modi sono propri di una creatura limitata, condizionata dal tempo, dalle sue capacità. Dio, che non è condizionato da cosa alcuna, che è pura libertà nell’atto, non può avere nessun modo: Egli agisce in noi senza modo. Ma come l’anima allora può affidarsi all’azione di Dio nella pura docilità che l’abbandono richiede? Noi dobbiamo essere disponibili a Dio nell’atto di una fede umile e viva, sicché Dio agisca in noi secondo la sua volontà, non secondo il nostro disegno, secondo il suo volere e non secondo i nostri modi.
Che Egli sia libero veramente in noi! Lasciamo a Dio piena libertà nel suo modo d’agire; non vogliamo dirigere l’azione di Dio, non vogliamo dettare a Dio alcuna legge. Questa sua vita deve espandersi in noi. Perché Dio agisca si richiede un puro amore dalla creatura, amore che esclude ogni riserva, ogni condizione da parte nostra in tal modo che la libertà di Dio rimanga pura, rimanga assoluta. Che Dio sia Dio! Ecco quello che noi dobbiamo chiedere, ecco quello che noi dobbiamo volere: che Dio sia Dio attraverso di noi.
Una nuova creazione
Allora lo Spirito potrà dare origine ad una nuova creazione, di cui la prima è soltanto immagine e tipo. Donerà una legge nuova, che non fa più Dio estraneo all’uomo, ma intimo a lui. Non è tutto qui il mistero della Pentecoste? È tutto qui, precisamente, perché non vi potrebbe essere immagine, richiamo, allusione più grande. Nuova creazione in quanto importa una nostra partecipazione alla vita di Dio. E non in un senso analogo, anche qui. Certo, analogo si può dire sempre, perché l’uomo, insomma, non può essere Dio, come Lui, infinito; come Lui, Uno. E tuttavia la partecipazione alla vita divina è una vera partecipazione; come è vera l’Incarnazione del Verbo, così è vera la discesa dello Spirito; come veramente la Seconda Persona della Santissima Trinità assume la natura dell’uomo, così veramente la Terza Persona della Santissima Trinità discende sopra la terra e si posa sopra la terra, dimora nell’uomo e diviene il principio della sua vita. Non certo nel senso che l’uomo, ora, sia composto di Spirito Santo, nel senso cioè che ora si possa parlare di unione ipostatica fra la natura umana e la Terza Persona della Santissima Trinità, non in questo senso. Lo Spirito Santo rimane un dono e, se rimane un dono, non s’identifica mai a colui cui è donato. Ma in tal modo è dono che l’anima veramente lo possiede e che veramente Egli diviene nell’anima, dicevo, principio di tutta la vita soprannaturale.
Del resto, non potrebbe essere altro che Dio il principio di una vita soprannaturale, se questa vita è vita divina. Ed è questa la vita divina che lo Spirito Santo ci partecipa attraverso i suoi doni: ci conforma al Cristo, ci unisce a Lui, ci fa una sola cosa con Lui, membra del suo Mistico Corpo, ci assimila a Cristo per essere noi stessi figli nel Figlio perché noi siamo partecipi in qualche modo anche della relazione propria del Figlio al Padre Celeste: ci fa insomma partecipi della vita trinitaria. Non siamo più estranei a Dio; il Dio che adoriamo non è più l’Uno della mistica neoplatonica, ma è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. La nostra vita cristiana, la nostra vita soprannaturale, non è più adorazione soltanto di Dio; certo che lo adoriamo, perché rimaniamo creature, eppure la nostra vita non termina nell’adorazione: è la pura lode, che è la vita del Verbo nei confronti del Padre.
La nostra vita nella Trinità
La nostra vita è veramente un essere una sola cosa col Verbo divino per essere la gloria del Padre. Non rimaniamo al di qua del Sancta Sanctorum: entriamo oltre il velo. L’Incomunicabile, ecco, ci ha in Sé attratto mediante il dono dello Spirito. Mediante il dono dello Spirito, in qualche modo Dio ha devastato il suo silenzio per traboccare nella creazione. Ma meglio sarebbe dire che Egli ci ha tratto a Sé, sicché noi in questa medesima solitudine siamo stati introdotti. La creazione e Dio non sono più separati, rimangono distinti ma veramente Dio è tutto in tutte le cose già ora, nel mistero. Domani, l’anima lo vivrà nella propria esperienza, perché l’anima non avrà altra esperienza che della vita divina.
In un morire continuamente a se stessa l’anima umana, e ciascuna creatura, non vivrà che la vita di Dio. Elemento negativo e positivo della vita soprannaturale: un morire della creatura ai propri limiti per vivere la vita stessa di Dio. Morte e resurrezione. La creazione e Dio non sono più separati; rimangono distinti e rimane distinta ogni persona umana dalla Persona del Verbo, ma pur rimanendo ferme queste distinzioni, la vita è una e uno il mistero che congiunge Dio e l’uomo per sempre.
Così, lo Spirito Santo, per il dono che il Padre ci ha fatto per mezzo del Figlio suo, non è più l’unità soltanto del Padre e del Figlio: è in qualche modo l’unità stessa della creazione con Dio, è Colui che la compie.
Ecco la nuova creazione. Qual è la nuova creazione dunque? È una creazione che non è nuova, perché è antica quanto Dio, è Dio stesso. Dio stesso che in Sé abbraccia tutte le cose, Dio stesso che si moltiplica in ogni creatura per vivere in essa; Dio stesso che si dona ad ogni creatura per moltiplicare in qualche modo la sua beatitudine in ogni coscienza che lo ama, in ogni creatura che in Lui crede e a Lui si affida.
Reductio ad Unum
La nuova creazione non è, come la prima, un moltiplicarsi delle cose. Non si può dire infatti “moltiplicarsi”. Filosoficamente sarebbe errato dire che le creature e Dio sono due cose, ma la creazione stessa è molteplicità di esseri. Nella seconda creazione invece, questa molteplicità si riconduce all’unità. Infatti, l’azione dello Spirito è formare in tutti Cristo e far sì che tutta quanta la creazione divenga il Corpus Christi Mysticum per una certa assunzione di tutta quanta la creazione da parte del Verbo di Dio, che lascia intatte però non soltanto la distinzione delle nature ma la distinzione anche delle persone. Ma lo Spirito Santo, non soltanto opera questa unità, questa reductio ad Unum nel Cristo Mistico: Egli opera anche questa unità di tutta la creazione riportandola nel seno stesso di Dio. Non soltanto avviene nel Cristo l’unità della natura umana, prima frantumata e dispersa: avviene anche l’unità poi di questa natura umana e di tutta quanta la creazione con Dio stesso. Nella seconda creazione le cose molteplici si riducono ad uno: Cristo solo. Ma Cristo è anche Dio ed uomo: non vi sono più nemmeno Dio e la creazione come separati fra loro, ma un solo Cristo. Un solo Cristo! Mistero dell’unità: ecco la creazione nuova dello Spirito Santo.
Lo stupore è proprio del cristiano
Che cosa importa per noi questa visione? Oh, importa tante cose anche per la nostra vita spirituale! Che abbiamo idee un po’ più larghe, che non ci fermiamo a un certo pietismo, che ci rendiamo conto davvero dell’immensità a cui siamo chiamati; è qualche cosa che veramente non può non lasciare la nostra anima in un certo sgomento e sbalordimento divino. Un agraphon che si conserva nel Vangelo apocrifo di san Tommaso e che riporta san Clemente Alessandrino dice: «Chi cerca trova, e chi troverà sarà meravigliato, e nella sua meraviglia troverà riposo». Precisamente: l’atteggiamento, direi, del cristiano di fronte ai misteri della fede è sempre uno sbalordimento, uno stupore, un sentirsi come trasportato in un mondo così grande, così immenso da togliere il respiro. Chi non sa meravigliarsi non può esser cristiano: la meraviglia, anche sul piano umano, è la bellezza della vita, perché è dalla meraviglia, dallo stupore, che nasce la gioia; dunque lo stupore è proprio del cristiano, è proprio di chi crede. Anzi, direi che necessariamente la fede, ogni fede nel soprannaturale, produce come suo primo frutto non l’amore; che cosa volete offrire al Signore quando vi manifesta queste grandezze? Quello che potete offrire, l’unico frutto, l’unico risultato, l’unica cosa che nasce immediatamente, è uno stupore senza fine: l’anima non riesce a riaversi dal suo sbalordimento. Come è possibile tutto questo?
Credere è vivere in questo stupore e in questo stupore l’anima vive la gioia di esser cristiana, come san Francesco d’Assisi. Ogni cristiano è un’anima che canta. Dove vanno a finire tutte le nostre miserie di fronte a queste meraviglie? Non adattiamo la grandezza di Dio alla nostra piccolezza! Siamo noi che dobbiamo adattarci a Dio!
Lo Spirito Santo, poi, introduce tutte le creature nel seno del Padre. Lo Spirito Santo diviene la legge stessa del cristiano; non più le tavole di pietra, ma lo Spirito Santo. Quello Spirito Santo che crea è anche la legge. La legge del Cristianesimo, la legge della vita soprannaturale, più che alla legge del Sinai, somiglia alla legge necessaria, fisica, della creazione: come questa è intima alle cose.
Però non è detto che se lo Spirito Santo è la legge del cristiano questi debba allora essere necessitato in qualche modo dallo Spirito Santo. È detto però che lo Spirito Santo agisce in te attraverso degli istinti che in qualche modo precedono il tuo stesso volere e lo creano, precedono il movimento della tua volontà e anzi la dispongono a consentire. Dio diviene intimo alle cose. Ora, la legge naturale nel cristiano, se si può dir così, diviene Dio, perché Dio è la sua norma, e a Lui il cristiano deve adattarsi.
È lo Spirito a guidare la Chiesa
Che cosa vuol dire questo? Che cosa esige il Mistero della Pentecoste nella nostra vita cristiana? Che noi crediamo di più all’azione dello Spirito Santo nell’anima nostra, in modo da poterci affidare davvero a questo Divino Spirito. In fondo mi sembra che il grande peccato dei cristiani sia proprio questo; non si crede che lo Spirito Santo veramente agisca nella Chiesa. E allora si costruiscono un monte di difese, di ostacoli, da una parte e dall’altra, perché non si crede, si ha paura insomma; sempre la paura ci muove. Ma perché non crediamo davvero che lo Spirito Santo sia l’anima della Chiesa? Se lo Spirito Santo è l’anima della Chiesa, è mai possibile che gli errori degli uomini possano compromettere questa medesima vita, possano compromettere l’adempimento dei disegni di Dio? Possono ritardare, inceppare; ma quanto più dell’errore involontario, inceppa e ritarda la mancanza di fede! Anime aperte esige la Chiesa, anime che veramente credono e si affidano all’azione dello Spirito. C’è la necessità di grandi santi, che rompano tutte le pastoie e si affidino davvero a questa forza divina che urge nel cuore della Chiesa e muove tutta la Chiesa.
Ma un’altra cosa si esige: che noi crediamo anche all’azione dello Spirito in noi. Non è forse vero che la vita dei cristiani in gran parte è appesantita, ritardata, soffocata da tante paure umane, sgomenti, timori, scoraggiamenti, sfiducia, senso d’impotenza? Ma se davvero Dio si è donato all’uomo, dove vanno a finire i nostri peccati? Dove possono andare a finire le nostre impotenze? Crediamo forse noi di legare le mani a Dio, di poter dare noi un limite alla sua onnipotenza? Crediamo davvero allo Spirito? Si diceva anche stamani: in fondo in fondo ci sembra che la risposta data da san Francesco sia il minimo che potrebbe dare un uomo se veramente credesse. Se noi crediamo davvero che Dio si è donato, donato per esser posseduto, come possiamo noi temere? Che cosa temiamo? Perché non ci affidiamo allo Spirito?
Come riconoscere l’agire dello Spirito?
Ma voi dite, e giustamente: «Ma come sappiamo che sia veramente lo Spirito a guidarci? Come possiamo noi esser garantiti contro le illusioni della natura, contro i pericoli di suggestioni che non soltanto hanno il loro principio nella nostra natura, ma nel Maligno, nel demonio?». Certo, come lavora Dio così lavora il Maligno nella creazione e anche nell’uomo. Ma i testi del Nuovo Testamento fanno vedere chiaramente, anche qui, che è troppo grande la nostra paura. Certo che lavora anche il Maligno, ma che cos’è il Maligno di fronte a Dio? Dice una parola sant’Antonio, a questo proposito, sulla debolezza del Maligno: dice che appare non soltanto debole ma anche ridicolo. Non è da prendersi sul serio, insomma. E certo, che proporzione vi può essere? Noi abbiamo paura delle apparenze. Siamo sempre legati a questo mondo fenomenico, non crediamo all’azione segreta ma onnipotente di Dio, tanto nella Chiesa, nella creazione, che in noi. Ci impauriamo. Ed è questo che il Demonio vuole.
Il Demonio, in fondo, spesso non può ottenere la sua vittoria col farci cadere, col compromettere la nostra salvezza: quello che ottiene è che invece compromette la nostra santità. Impaurisce le anime, impaurisce questi uomini della Chiesa. Il timore del comunismo, il timore di una cosa, il timore dell’altra, inibisce gli apostoli, crea un monte di paure. E il timore inibisce le anime, le chiude, le soffoca, le stringe, le appiattisce, non le fa camminare. Certo che il discernimento degli spiriti è una delle cose più importanti nella vita spirituale. Ma col Mistero dell’Incarnazione del Verbo dobbiamo renderci conto che tutta la vita umana, ora, diviene segno di una vita divina. Come l’umanità del Cristo è il sacramento della Divinità, così anche la vita dell’uomo diviene il segno della vita divina; parlo di vita umana, purché sia vita umana sana, purché sia una vita della natura risanata, purché non sia una vita vissuta nel peccato, insomma. Noi dobbiamo essere ottimisti: solo il peccato può essere un ostacolo reale all’azione dello Spirito. Non avete bisogno di pensare, per un certo illuminismo mistico, che in ogni vostro pensiero voi abbiate una diretta comunicazione con Dio, una illuminazione propria dello Spirito Santo: non c’è bisogno di questo perché voi vi possiate affidare ad ogni pensiero giusto e sano come a una via e a un mezzo che vi conduce a Dio, come anche a un segno di un’azione segreta della grazia nel vostro spirito.
Dio è all’opera, come nella creazione, così nella vostra vita. Non vi è atto umano, sia interno che esterno, purché non sia peccato, che non sia anche un atto suscitato in noi dallo Spirito divino, suscitato non tanto per farci santi, quanto per farci Cristo. La santità, così come comunemente s’intende, come perfezione morale, è troppo poco: l’etica non è la santità. Ogni atto dell’uomo importa questa forza divina dello Spirito che ci solleva, ci lievita per assimilarci a Cristo e portarci al Padre. Sentire questo, crederlo anzi veramente, crederlo in tal modo da sperimentarlo, da realizzarlo comunque. Questo mi sembra che sia necessario.


* * *

PENTECOSTE: COMPIMENTO DEL MISTERO DIVINO


21 maggio 1961 - Ritiro
Prima meditazione
Peccato dell'uomo e azione di Dio
Non possiamo vedere nell'Incarnazione del Verbo, nella discesa dello Spirito, solo il rimedio al peccato dell'uomo. Senza il peccato, l'uomo non avrebbe dunque conosciuto questa seconda creazione che avrebbe introdotto tutto ciò che era in Dio? Ma la prima creazione non era effettivamente condizione della seconda? Non aveva voluto, Dio, le cose tutte, per poi comunicarsi a tutte quante le cose che Egli aveva creato, quasi moltiplicando la sua beatitudine, la sua gloria, la sua santità in ogni creatura che lo avesse potuto ricevere? Non aveva Egli voluto e disposto che ogni creatura fosse davanti a Lui come un vaso che doveva accogliere la sua santità come un liquore, un profumo?
Noi vediamo nell'Incarnazione del Verbo e nella discesa dello Spirito il compimento ultimo di un disegno divino che prescinde dal peccato degli uomini. L'elevazione della creatura all'ordine soprannaturale ci sembra che esigesse il compimento di quel mistero che oggi noi celebriamo perché Dio non avrebbe potuto elevare a Sé la creatura, non avrebbe potuto comunicarsi ad essa senza assumere la natura creata, senza donarsi a questa natura nel dono del suo Spirito. E noi oggi celebriamo il compimento di tutte le opere di Dio, un compimento che non è più una operazione onde Dio trae dal nulla le cose, ma le stabilisce come fuori del sacro recinto della sua Divinità: nel compimento delle opere sue Dio di nuovo rientra nel suo silenzio, nella sua solitudine, nell'intimo del suo seno. L'opera sua ultima è come la prima, è la generazione del Verbo, è l'effusione dello Spirito, la spirazione della Terza Persona. Così il termine si riunisce all'inizio. Dio non compie che un'opera sola, la compie dall'eternità e nell'eternità la prolunga: è precisamente questa stessa generazione e questa stessa spirazione: operazioni immanenti della Divinità, che esauriscono la fecondità stessa di Dio, che ne dicono tutta la sovrana potenza, che ne esprimono in un modo veramente esaustivo, pieno, tutta la gloria, tutta la santità e tutta la vita.
L'agire della Trinità al di fuori di sé...
Ma questo vi è di proprio a tutte le operazioni divine: che il compimento del mistero di Dio implica che la generazione del Verbo e la spirazione del divino Spirito non siano più operazioni immanenti, intime alla Divinità, in tal modo da escludere da queste operazioni tutto quello che è al di fuori di Dio, tutto quello che Dio ha tratto dal nulla e che rimane estraneo alla sua intima vita. Nel compimento del divino mistero, le creature tutte sono associate a questa intima vita di Dio, divengono esse partecipi di quella ineffabile gloria, di quella immensa potenza, di quella infinita santità. E Dio è tutto in tutte le cose. Davvero non è più che la sua immensa vita che in sé abbraccia ed include anche la creazione, la creazione medesima. Di fatto, l'Incarnazione del Verbo non è che il prolungarsi della generazione divina. Di fatto, la discesa dello Spirito Santo non è che il prolungamento della spirazione del divino Spirito dal Padre e dal Figlio. Le missioni divine, c'insegna san Tommaso d'Aquino, non sono che il prolungamento delle operazioni immanenti della Divinità, le sue processioni. Prolungamenti no: l'espressione è sbagliata; ma san Tommaso usa questa parola perché altre parole, umanamente, non vi sono. Non può prolungarsi un'azione divina, quasi non fosse in sé infinita e potesse avere prolungamento. Non si può parlare in senso proprio di prolungamento ma si parla di prolungamento come si parla di discesa: il termine rimane improprio ugualmente. Dio non scende né sale, Dio non esce e non entra: Egli è. Ma nell'immutabilità dell'Essere suo, nella pienezza della sua vita divina, tutte quante le cose, sì, esse entrano. A questa intima vita esse sono associate, per vivere esse questa vita che rimane unica e immensa, perché Dio non si moltiplica.
... è opera unitaria delle Tre Persone divine
La festa della Pentecoste, si diceva, è il compimento del mistero divino che noi celebriamo stamani. Perché? Forse l'Incarnazione del Verbo non implicava per sé una discesa dello Spirito? Può separarsi il Figlio dallo Spirito, il Figlio dal Padre? Se Dio rivela Se stesso nel Figlio suo, può questa rivelazione non implicare una presenza dello Spirito, un dono dello Spirito Santo? Ma noi vediamo già nell'Antico Testamento che tutta la rivelazione divina, che tutta l'azione di Dio nel popolo d'Israele, implica in qualche modo una presenza del Verbo. E dunque, già un inizio di divina Incarnazione implica, in qualche modo, una discesa dello Spirito. È tutto l'Antico Testamento che ci parla sia della Parola di Dio che opera tutte le cose, sia dello Spirito di Dio che opera tutte le cose. Non vi è possibilità di rivelazione se non nel Figlio, non vi è possibilità di comunicazione se non nello Spirito; ma non si devono pensare, rivelazione e comunicazione di Dio, come due operazioni separate della Divinità, come azioni successive della Divinità. Non è successiva la spirazione dello Spirito nei confronti della generazione del Verbo, né è separabile la generazione del Verbo dalla spirazione dello Spirito Santo. Nella Trinità, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, come sono un solo Dio, così sono inseparabili pur essendo Persone distinte.
La storia dell'uomo...
Inseparabili sono dunque, nel dono che Dio fa di Se stesso, sia il Verbo che Io Spirito. Certo, noi dobbiamo dire che l'Incarnazione si realizza soltanto nel seno della Vergine; certo, noi dobbiamo dire che la discesa dello Spirito Santo si effettua in modo pieno il giorno della Pentecoste; ma fin dall'inizio, fin dalla creazione, le mani del Padre, il Verbo e lo Spirito, hanno plasmato l'uomo. Fin da quando Dio ha elevato la creatura all'ordine soprannaturale, questa elevazione ha importato che la creatura fosse introdotta nel seno della divina Trinità partecipando in qualche modo a una generazione e a una spirazione divina. Non a una generazione, non a una spirazione divina, ma alla generazione e alla spirazione dello Spirito. Perché non vi sono due generazioni in Dio, come non vi sono due spirazioni. Metodio d'Olimpo vede già in Adamo il Cristo; e nella Cattedrale di Chartres l'artista che scolpì la creazione dell'uomo scolpì il volto di Adamo simile, anzi, uguale al volto del Cristo. Già Adamo è unito a Gesù. Non per nulla Paolo dirà che Gesù è il nuovo Adamo: nuovo perché realizza la figura. Ma la figura non sarebbe figura se la grazia di Cristo già non animasse la prima creatura sul cui volto Dio alitò il soffio di vita.
... è un parto divino
Già dunque in Adamo vi è un inizio di Incarnazione divina. Adamo prepara l'Incarnazione ventura; ma non sarebbe una preparazione se la figura fosse del tutto separata dal suo divino modello. Come è indecente parlare di imitazione di Cristo, quasi che noi si potesse ricopiare il Cristo rimanendo da Lui separati - una imitazione di Gesù importa che Gesù viva in noi e ci trasformi in Sé - così sarebbe indecente parlare di Adamo, di Isacco, di Giuseppe, di David, figure del Cristo, se non pensassimo che già la grazia del Cristo va operando in loro un'assimilazione, una trasformazione della pasta umana. Tutta quanta la storia degli uomini è la storia di un parto divino. Fin dall'inizio Dio si comunicò all'uomo nel seme che è la divina Parola; e il seme formò, lentamente, attraverso i secoli, Colui che sarà detto il Figlio dell'uomo. Gesù non è soltanto Figlio di Maria: giustamente san Luca lo chiama Figlio di Adamo, Figlio di Abramo, Figlio di tutta quanta l'umanità fin dai primordi, Figlio di tutto il popolo d'Israele fin dalla vocazione d'Abramo.
Nella Pentecoste si compie il mistero, ma un mistero che si inizia con la creazione del mondo. Mai infatti Dio ha voluto la creazione come indipendente da Sé, come in se stessa avente una ragione sufficiente al suo proprio esistere in una sua autonomia. In fondo, il peccato dell'uomo, come il peccato degli angeli, è precisamente il rifiuto del mistero divino: è volersi chiudere in un'autonomia creata, in una certa sufficienza creata, in una certa autonomia. Non assoluta, perché la creatura dipende sempre dal Creatore e tuttavia relativa, in quanto implica il rifiuto di una grazia che sollecita la creatura a entrare nel seno di Dio per vivere non più la sua vita ma la vita stessa di Dio. Questo è il peccato del mondo; ma appunto questo peccato implica una presenza del Cristo fin dall'origine. II peccato dell'uomo fin dall'origine fu la morte del Cristo venturo. Se il peccato d'Israele è stato il deicidio, ricordiamoci che la morte del Cristo è veramente l'espressione ultima del peccato umano; il primo peccato dell'uomo già era la morte del Cristo, un rifiuto a questa Incarnazione ventura, a questo essere assunti da Dio, un rifiuto a perdere, la creatura, la propria autonomia, per essere totalmente presa dall'azione di Dio e trasportata nel seno del Padre.
"Lo Spirito soffiava..."
Nella Pentecoste dunque si compie il mistero. Perché si compie nella Pentecoste? Perché non si compie nell'Incarnazione?
Abbiamo detto che sono inseparabili, il Verbo e lo Spirito, sia in Dio, che nell'economia di grazia; nel mistero intimo della vita divina come nel mistero della sua comunicazione al mondo. Se Adamo, dunque, aveva il volto di Cristo, già lo Spirito compiva questa somiglianza di Adamo con Cristo. È nell'alito, nel soffio di vita che Dio inspira in Adamo che Adamo diviene l'immagine, diviene il tipo del Cristo venturo. Già il Verbo e lo Spirito sono all'opera fin dalla creazione dell'uomo, dice Ireneo. E all'opera essi saranno, il Verbo e lo Spirito, lungo tutta la storia umana.
L'Incarnazione dunque si inizia con la creazione del mondo come la discesa dello Spirito si inizia con la creazione del mondo. Giustamente i Padri vedono nelle parole della Genesi - "lo Spirito di Dio aleggiava sopra le acque" - la funzione dello Spirito Santo sopra la terra. Non si può pensare l'immagine come avulsa dall'atto finale. Veramente si inizia una Incarnazione, veramente si inizia una discesa. Tutto è nuovo con l'Incarnazione del Verbo, tutto è nuovo con la discesa dello Spirito Santo, eppur nulla è nuovo nell'Incarnazione, nulla è nuovo nella discesa dello Spirito. Vi è continuità fra la creazione prima e la creazione seconda, fra la creazione prima e la resurrezione finale dei corpi e anche la beatitudine celeste, a cui poi tutta la creazione sarà chiamata un giorno quando tutta la creazione, assunta dal Verbo, entrerà per il soffio dello Spirito, per la spirazione dello Spirito, nel seno del Padre. Tutta la creazione, dico, nel soffio dello Spirito: e non dico perciò tutte le anime, ma anche i corpi. Ecco perché la resurrezione dei corpi è opera dello Spirito Santo. Secondo i Padri, su tutta quanta la creazione spirerà lo Spirito, trascinando tutta quanta la creazione in questo soffio, in questo anelito di amore, in questa spirazione di amore, in questa esalazione di amore, portando tutta la creazione in Dio. Tutta: anche i corpi, anche il mondo visibile.
Da Pentecoste...
Ma perché, dicevo dunque, la Pentecoste compie il mistero divino e non l'Incarnazione? Oh! Si può dire che anche l'Incarnazione compie, in certo modo, il mistero di Dio, perché anche l'Incarnazione implica una discesa dello Spirito. L'Incarnazione del Cristo è il mistero di Dio compiuto in atto primo: non ancora comunicato agli uomini, ma comunicato alla natura umana. E implica certo una discesa dello Spirito Santo. Infatti, non si compie l'Incarnazione che nella reale effusione, nella realissima discesa dello Spirito Santo nel seno della Vergine. Nella Incarnazione lo Spirito Santo, nel modo più reale e più pieno, discende quaggiù sulla terra; ma non discende per tutti, non si comunica a tutti gli uomini: discende, si effonde, adombra di Sé, della sua virtù, solo una creatura che, pur essendo unita agli altri uomini, è anche in qualche modo, per privilegio singolarissimo, separata da loro in quanto non è solidale con loro nel peccato. Perciò la discesa dello Spirito Santo sopra Maria Santissima non implica per sé una discesa dello Spirito Santo sopra la creazione intera. Ma tuttavia è proprio per questa discesa che l'Incarnazione si compie. La discesa dello Spirito Santo sopra i discepoli, da san Luca negli Atti degli Apostoli, è contemplata e descritta precisamente come in una trascrizione del 2° capitolo del suo Vangelo. Di fatto, quello che è avvenuto in una donna ora avviene sui discepoli del Cristo, sui singoli uomini.
... nasce la Chiesa
Che differenza c'è dunque fra l'Incarnazione e la discesa dello Spirito Santo? Nessuna, eppure una grande differenza. Nessuna se si considera l'atto in sé; una grande differenza se noi vediamo nella Pentecoste non il prolungamento soltanto, ma il dilatarsi immenso del mistero che si era compiuto: l'Incarnazione del Verbo nel seno della Vergine. Giustamente nella discesa dello Spirito Santo sopra gli Apostoli nasce la Chiesa ed essa, la Chiesa, nasce come Corpo Mistico del Cristo. Gesù era uno fra gli uomini come Maria una fra tutte le altre creature; ma precisamente questo loro essere fra le creature, se diceva una comunanza di vita, diceva anche una distinzione, e in qualche modo, per il fatto che non conoscevano peccato, una loro separazione dagli altri. Gesù vive in mezzo al mondo, eppure il mondo non lo conosce: "in propria venit, et sui eum non receperunt". Come si capisce! Ma lo capisce più Nostro Signore di me e di voi. Si capisce, non si scusa: si comprende il rifiuto d'Israele ad accogliere il Cristo, si capisce il rifiuto del mondo ad accogliere la Parola. Gesù rimane, sì, con gli uomini, ma è diverso da loro. Non c'è nulla in comune, proprio perché non c'è la comunanza di un destino nello stesso peccato, una solidarietà nel peccato.
E pur tuttavia è questo Uomo che ha tratto la sua natura da noi; che morendo e assumendo con la sua morte il peso dei nostri peccati, ci può donare il suo Spirito; che può comunicare a tutti noi il suo Spirito, vincendo Egli nel suo dono l'opposizione che noi abbiamo fatto alla sua santità nel nostro peccato. In atto primo, il mistero si compie nel Cristo; in atto secondo si compie su tutti i discepoli. Lo Spirito Santo discende sopra una donna: ma la discesa dello Spirito Santo sopra questa donna non implica in nessun modo una nostra santificazione. L'Incarnazione stessa del Verbo non implica nulla per noi: per sé, Dio compie l'atto: soltanto indirettamente glorifica la nostra natura, ma noi rimaniamo estranei a Lui. Questo è tanto vero, che dei quattro evangelisti, due soli ci parlano della nascita di Gesù, due soli ci parlano della concezione verginale di Maria; per gli altri, la stessa missione di Gesù si inizia soltanto col battesimo. Infatti col battesimo, si noti bene, Gesù non è più estraneo del tutto agli uomini: pur non essendo Egli peccatore, diviene pubblico penitente; pur non essendo Egli personalmente peccatore Egli è riconosciuto da Giovanni come il Servo di Jahweh che prende sopra di Sé tutti i peccati del mondo per espiarli con la sua morte di croce, così lo addita Giovanni il Battista, così soprattutto lo proclama la parola del Padre nell'atto stesso del suo battesimo. Il mistero cristiano si inizia non tanto con la nascita di Gesù quanto col battesimo di Gesù e questo non soltanto secondo gli evangelisti ma secondo anche gli Apostoli: quando deve essere sostituito Giuda con un altro Apostolo, san Pietro chiede che si scelgano coloro che poi dovranno essere sorteggiati, fra quelli che sono stati sempre col Signore Gesù "dal battesimo di Giovanni fino alla sua morte di Croce"; non prima! Gesù prima del suo battesimo rimane come estraneo, insomma; come Maria.
Che cos'è la Pentecoste?
È una cosa che ci mette i brividi! È una cosa immensa pensare che un Dio si è fatto uomo, ma in fondo ci lascerebbe più soli nella nostra miseria la consapevolezza che una natura umana singolare soltanto è stata fatta partecipe della gloria dell'Unigenito. È certo una grande gloria per noi che un nostro fratello sia anche Figlio di Dio: ma è una gloria che ci fa sentire di più, dicevo, la nostra miseria, il nostro peccato, se questo nostro fratello non può comunicare anche a noi personalmente la sua gloria e la sua santità. Ora, nella Pentecoste, quello che avvenne in una Vergine, quello che si compì in questa donna, avviene in ogni uomo, si compie in ogni uomo. Ecco il mistero della Pentecoste. Mette i brividi, miei cari, il pensarlo. Non Dio ha visitato la terra, non Dio è disceso quaggiù nel mondo, ma Dio si dona a me, vive in me. Ogni anima diviene capace di Dio, accoglie Dio in sé, perché in lei si rinnovi il mistero di una sua unione col Verbo. L'unione nostra con Dio si realizza in questo dono dello Spirito e in questo dono dello Spirito che ci unisce a Dio, si realizza anche, come frutto divino di unione, la nostra trasformazione in Cristo. II figlio non si separa, qui, dalla madre: il figlio in qualche modo è la madre: tu non sei Cristo eppur sei Cristo. Il figlio non si separa dalla madre. Come nel Padre la generazione del Verbo non implica che il Verbo esca dal seno del Padre, ma in questo seno riposa, in questo seno rimane eternamente, come eternamente è generato; così il Figlio che nasce dalla unione dello Spirito con l'anima, con ciascuna anima - unione veramente nuziale - non è separato da te: tu sei Cristo.
E si noti allora, come l'anima entra, attraverso il dono dello Spirito, nella divina Trinità. Non può separarsi la Pentecoste dal Mistero cristiano, perché l'unione nuziale che si realizza fra noi, fra ciascuno di noi e lo Spirito di Dio, implica come suo frutto un prolungamento dell'Incarnazione divina, una dilatazione del Cristo sì da fare di noi tutti le sue proprie membra.
Atto perenne
Ora, questo è il mistero della Pentecoste. L'Incarnazione del Verbo avviene in un preciso istante nel tempo, avviene in un luogo solo. La Pentecoste non è così determinata a un luogo e a un tempo, è un atto perenne. L'Incarnazione si è compiuta; non si ripete, non continua, perché è un atto perfetto; una volta nato dalla vergine Gesù non rinasce, come una volta morto Egli più non muore. È un fatto storico determinato, preciso. La Pentecoste riguarda ognuno di noi, perciò non può esser legata a un tempo, non può esser legata a uno spazio. Lo Spirito ha veramente invaso tutta la terra: tutta la terra, io dico, non nel senso soltanto spaziale, ma nel senso anche temporale. Non vi è più un momento nel tempo, non vi è più un luogo nello spazio che non implichi questa effusione dello Spirito, perché il mistero dell'Incarnazione divina divenga il mistero di ogni anima inserita nel Cristo, partecipe di una certa divina maternità, per essere una sola cosa con Lui, per trasformarsi, ognuno di noi, in Gesù benedetto.
Questo è il mistero della Pentecoste: sono poche parole quelle che abbiamo dette, ma da queste parole penso che deriverà tutto quanto noi andremo meditando in questa giornata così solenne. Vi chiedo un grande raccoglimento, un grande silenzio. Come possiamo distrarci da Dio? Come possiamo in un giorno così grande pensare alle nostre piccole cose e non accogliere Dio che viene, che ci vuoi visitare, che ci vuoi riempire di Sé, per essere il principio nuovo di una vita che è insieme umana e divina, vita dello Spirito e dell'anima? Vita umana e divina che dà come suo frutto Colui che è insieme uomo e Dio: Cristo Signore.
Omelia
Nel profondo del nostro intimo...
Il mistero della Pentecoste, questo mistero singolare, che si è compiuto una volta nel tempo sotto Tiberio Cesare, al tempo di Erode, nella Giudea, si compie oggi, ora e qui, in ognuno di noi. Nulla ci è sottratto di quanto Dio ci ha donato, di quanto Dio, nel segreto della sua intima vita, è. Nel dono dello Spirito che Egli ha fatto a ciascuno, nulla più ci è lontano ed estraneo, nulla più ci è negato, da nulla più siamo esclusi: tutto l'uomo possiede e tutto egli possiede nel più intimo centro di sé, nel più intimo fondo dell'essere suo sicché, non tanto noi possediamo noi stessi quanto prima possediamo Dio; prima ancora di possedere noi stessi, prima ancora di essere nostri, Egli è la nostra ricchezza, Egli è la nostra vita. Precisamente questo è il dono che lo Spirito compie: fa sì che noi non ci possediamo più e quello che noi siamo e quello che noi abbiamo non sia più che un dono di noi stessi a Lui. Perché noi possediamo Dio per essere a nostra volta posseduti da Lui. Questo dunque è il contenuto della nostra vita, questo è il contenuto di tutto l'essere nostro: Dio! Ecco il dono della Pentecoste, ecco la festa di oggi.
... tutto ci appartiene
Noi possediamo Dio, dicevo, nel più intimo centro della nostra anima, nel più intimo fondo dell'essere nostro; ed è precisamente in questo fondo che noi dobbiamo discendere per possedere ogni cosa. L'uomo abitualmente esce di sé, cercando qualcosa che egli non trova. Siamo stati creati precisamente per essere ordinati a Dio. Non troviamo in noi che debolezze e miserie, non siamo in noi stessi che debolezza e peccato. Così tutto il cammino degli uomini è un fuggire se stessi, è un cercare fuori di sé quello che in se stesso l'uomo non ha. La creatura è fatta così. Non può alimentarsi che da qualche cosa che le venga da altra via, di fuori. Oh, la vita dell'uomo! Dispersione continua, divagazione perenne: divertimento nel senso di "divertere", cioè uscire di sé, andare fuori, vagare. Ma l'uomo che possiede Dio, che ha ricevuto il dono dello Spirito, in questo intimo fondo deve discendere, in questo intimo centro deve dimorare. È là che possiede ogni cosa, è là che egli riceve la vita, è là che egli vive.
Di fronte alla vita del mondo, alla vita dell'uomo peccatore, che non è che dispersione, divagazione, ricerca affannosa, incessante, continua, come la vita dell'anima che possiede Dio è invece pace, come è riposo nel raccoglimento, nell'intimità più profonda! Come la vita del santo tutta si semplifica, come perde la molteplicità degli atti, la molteplicità dei sentimenti, come tutta si unifica in questo centro profondo! Come tutta precipita in questo fondo dell'anima, là dove Dio sempre dimora! Ecco la nostra vita, miei cari. Noi viviamo la Pentecoste, dobbiamo viverla sempre, perché sempre Dio si dona: non puoi usare il passato quando tu parli di un'azione di Dio. Egli continuamente viene, Egli continuamente si dà. In tanto tu lo possiedi in quanto tu lo ricevi. Egli continuamente viene, tu devi dunque accoglierlo sempre.
Vivere costantemente la Pentecoste in questo silenzio profondo dell'anima che ascolta la divina parola; accogliere sempre il dono dello Spirito, affondando nell'intimo centro dell'anima in una solitudine pura, in un silenzio pieno, nell'umiltà verace. Discendere! Questa è la via da trovare: affondare nell'intimo! Questa è la via di ogni pienezza. Proprio nell'istante che tu credi di perdere tutto, tutto tu vieni a ricevere. Tu che credevi nell'intimo di non possedere che il vuoto, ecco ti accorgi nell'intimo di possedere, ora, Dio. Che importano mai tutti i doni che il mondo può offrire? Tutto quello che il mondo può offrire alla tua vanità, alla tua ambizione, alla tua sete di godimento? Che cosa può importarti ora più di tutto quello che il mondo può offrirti quando in questo intimo centro, affondando, ti senti già colmo, pieno così da non poter ricevere più nulla, perché nulla ora la tua anima potrebbe ancor contenere dopo che ha ricevuto il dono di Dio?
"Veni, Sancte Spiritus"
Purezza, umiltà, pace: questa, la vita dell'anima che nell'intimo vive questo continuo ricevere il dono divino. Umiltà, pace, dolcezza. La tua vita si semplifica, perde ogni sua molteplicità, si unifica. Non hai più da far nulla. Non hai più nemmeno da pregare, non hai da cercare più nulla. Sembra la morte, ed è la vita di Dio. Sembra il vuoto, ed è la plenitudine infinita della sua pace. Sembra il silenzio e la tenebra, ed è una luce infinita che tutto cancella proprio per la sua purità, proprio per l'immensità del suo fulgore. Vivi nell'intimo, riposa nell'intimo, accogli in questo intimo centro il dono che Egli ti fa. Oggi, domani, ora, eternamente, in te lo effonde e in te egli discende. Non puoi possederlo come un bene che hai già ricevuto e che tieni lì fermo per poterne usare quando vuoi. Lo Spirito è vento che non s'imprigiona, lo Spirito è fiamma che non può esser contenuta: tu lo possiedi soltanto se tu continuamente lo ricevi. Vivi una continua invocazione allo Spirito. Credi di accoglierlo continuamente in te perché alla preghiera dell'uomo Dio continuamente risponde: non l'ha detto Gesù? Sia la nostra preghiera la preghiera di tutta quanta la Chiesa: "Veni, Sancte Spiritus"! Come continuamente dobbiamo invocare Gesù, così continuamente dobbiamo invocare lo Spirito. Discenda Egli in noi e ci unisca a Gesù; discenda Egli continuamente in noi e ci trasformi nel Cristo; discenda Egli continuamente in noi e ci faccia salire nell'ascensione stessa dell'Umanità sacrosanta del Verbo. Ci faccia salire fino nel seno del Padre continuamente, eternamente, in un atto solo di amore perché, come è l'amore onde il Padre si comunica a noi nello Spirito, così è anche l'amore onde l'uomo, tutta quanta la creazione, nel Verbo medesimo ascende nel seno del Padre.
Viviamo nell'intimo: proprio in questo intimo centro noi viviamo una vita che è immensa, che non conosce confini. Viviamo in questa intima pace: proprio in questa intima pace viviamo l'immensa vita di Dio. Viviamo in questo puro silenzio: proprio in questo puro silenzio noi saremo la divina parola! Questo ci chiede la festa di oggi, miei cari, la nostra festa. Festa di tutti, ma festa tanto più delle anime che vogliono tendere alla perfezione dell'amore. Che cos'è la perfezione dell'amore se non precisamente una nostra partecipazione, come ce lo insegna san Giovanni della Croce, alla spirazione stessa dell'Amore increato? Come noi riceviamo lo Spirito, così da noi Egli venga spirato, esali, così per noi Egli esali al Padre! Viviamo nell'intimo. Sia la nostra vita una vita di pace, una vita di umiltà, sia una vita di purezza, di gioia, sia una vita nello Spirito Santo. Silenzio ed amore! Silenzio e pace! Silenzio e gioia! E beatitudine dell'anima che si sente colma di Dio, colma così da traboccare, colma così da non poter più contenere in sé l'immenso dono che essa ha ricevuto da Lui!
Siamo ricolmi di Dio
Miei cari! Quel Dio che si comunica a ciascuno di noi è l'Unico. Ognuno di noi non è meno di tutta la Chiesa nell'accogliere Dio. Dio non dona a tutta la Chiesa più di quanto dona a ciascuno. D'altra parte, Dio, che è indivisibile, nemmeno potrebbe donarsi per parti. Che ciascuno viva nell'intimo una vita che in sé non ha davvero confine, la vita stessa di Dio. Certo, quel medesimo Spirito che si è donato a tutta la Chiesa si è donato anche a noi, e quello che si è donato anche a noi si è donato a tutta la Chiesa; cioè, vi è una possibilità di garanzia continua per la nostra vita interiore nella nostra obbedienza alla Chiesa, nella nostra docilità alla Chiesa, nel sentire che tutto quello che in noi avviene non è minimamente in contrasto, anzi si identifica pienamente alla vita di tutto l'organismo ecclesiale. Ma la nostra piccola vita non è minore della vita di tutto l'universo, perché la vita di ciascuno di noi è la stessa vita di Dio, che non è soltanto la vita dell'universo: è una vita che immensamente trabocca anche da tutto l'universo perché l'universo medesimo non può contenerla.
Raccogliti in te oggi per vivere questa Sua immensità. Com'è possibile non sentire la vocazione alla vita eremitica, alla vita di solitudine, alla vita di silenzio? Che cosa l'anima potrebbe cercare? Che cosa potrebbe volere, ora, di più, se veramente realizza il dono che Dio le fa di Se stesso? Ed è ben questa la vita a cui tutti siamo chiamati, sia che la viviamo quaggiù, sia che la viviamo domani quando saremo precipitati davvero nella solitudine divina, quando saremo accolti davvero nel silenzio di Dio.
Seconda meditazione
Dio vive in noi nel suo Spirito
Dio si dona a noi nel suo divino Spirito. La vita cristiana implica precisamente questo possesso: Dio in noi. Ma non è presente come è presente in tutte le cose: è presente come principio della nostra vita più vera, della nostra vita più intima, perché Dio è nostro più di quanto non ci apparteniamo noi stessi. Il possesso di Dio è più intimo al cristiano di quanto non sia intimo all'uomo il possesso di sé.
Dio vive in noi. Vive in noi in questo Spirito che precisamente non si dona per rimanere inattivo, non è accolto, non è ricevuto per essere conservato come una ricchezza che si custodisce in un forziere, ma è ricevuto precisamente per divenire principio di una nuova vita, di una vita che nello stesso tempo è di Dio e dell'anima. L'insegnamento è preciso: è l'insegnamento dei testi del Nuovo Testamento. San Paolo ce lo insegna in un testo che si ripete quasi esattamente nella Lettera ai Romani e nella Lettera ai Galati, sennonché nella Lettera ai Romani cambia il soggetto: "Perché siete figli mise Dio lo Spirito del Figlio suo nel cuore vostro, che chiama: Abba!" E nella Lettera ai Galati: "Perché siete figli, mandò Dio lo Spirito del Figlio suo, nel quale chiamiamo: Abba! Padre!" La vita è nello stesso tempo di Dio e dell'anima, inscindibilmente dell'Uno e dell'altra, perché inscindibilmente Dio e l'uomo sono uniti alla processione di una medesima vita. La vita del cristiano è Cristo; e Cristo rimane il frutto, come nella Vergine, della Madre e dello Spirito; dell'uomo e di Dio, dello Spirito che si effonde e dell'uomo che allo Spirito si dona.
Dio vive in noi nel suo Spirito. Poteva illudersi, l'uomo, col peccato, di sottrarsi alla grazia, di chiudersi in una sua autonomia di fronte al Signore. In realtà, col peccato l'uomo non si è sottratto al Signore. In realtà l'uomo non è mai soltanto uomo: l'uomo di pura natura non esiste. Il peccato dell'uomo non ci fa meno obbedienti e docili all'impulso, all'azione segreta ma efficace di un altro spirito che è lo Spirito Santo. Non viviamo mai la nostra vita: l'uomo in tanto vive in quanto si dona a un altro perché l'altro lo fecondi. E noi siamo o servi del diavolo o servi di Dio, o figli del diavolo o figli del Padre Celeste. Siamo figli del Padre solo nella misura che riceviamo lo Spirito Santo e siamo figli del diavolo nella misura che ci lasciamo guidare e muovere dagli spiriti della ribellione e della bestemmia.
Conoscere per discernere
Perché non siamo mai autonomi, noi dobbiamo essere sempre attenti per conoscere di che spirito siamo, onde non meritare il rimprovero che un giorno Gesù fece a due discepoli: "Voi non sapete...". Noi lo sappiamo? Sappiamo veramente se nella nostra vita è lo Spirito divino che ci guida e ci illumina, ci dirige e ci muove? Sappiamo veramente a chi obbediamo? Certo, nella vita spirituale cristiana è una delle cose più importanti la discrezione degli spiriti: saper discernere il padrone a cui obbediamo. Troppo spesso noi si agisce come agisce il bambino che non ha ancora l'uso della ragione: senza conoscere. Vi è un conoscere che è proprio dell'uomo sul piano della natura ed è l'età della ragione. Vi è un conoscere dell'uomo sul piano soprannaturale, e non è più l'età della ragione, è questa percezione che deriva all'uomo soltanto dal "donum sapientiae". Saper gustare per discernere. "Sapere", in latino, che vuol dire? Vuol dire gustare. Che vuol dire il dono della sapienza? Vuol dire avere un palato così fatto da saper discernere il sapore, da saper distinguere il dolce dall'amaro, da saper distinguere il salato dallo sciocco, da saper distinguere lo Spirito dall'altro spirito. Chi è che ci guida? Chi ci muove? Chi informa la nostra vita interiore? Abbiamo noi un palato così delicato da saper discernere? Dio ci ha dato questo "donum sapientiae" per veramente gustare e capire, per veramente gustare e conoscere. Prima però di pretendere di avere questa "discretio", questo discernimento, si impone che noi siamo veramente persuasi che non viviamo mai una nostra vita. Se nell'atto che compi non sei mosso da Dio, tu devi sapere che sei mosso da chi non è Dio. Non sei tu che ti muovi. Può l'uomo non rendersene conto, ma egli rimane o schiavo dell'Uno o schiavo dell'altro. In fondo, quanto più pretendiamo una nostra autonomia, quanto più aspiriamo a vivere la nostra vita, tanto più vive in noi quello spirito di ribellione e di orgoglio che è precisamente il seme di Satana. Un uomo che vive la sua vita non vive che la vita del demonio, non può vivere la vita di Dio. Perché precisamente il voler vivere una sua vita rifiutando la grazia, resistendo alla grazia, sottraendosi alla grazia divina, vuol dire per l'uomo precipitare sotto il dominio di colui che ha voluto affermare una sua indipendenza da Dio.
Non ci apparteniamo...
Di qui l'importanza che ha nella vita cristiana il senso di un'obbedienza, di una docilità. È il segno caratteristico della vita cristiana. Non vi è nella vita cristiana nessun esercizio di virtù che non implichi questo segno: il segno di dipendenza da un Altro che ci ama e a cui vogliamo obbedire, a cui noi ci abbandoniamo per essere trascinati, portati, mossi da Lui. Rendiamoci conto di questo per volere almeno fin dall'inizio che la nostra vita serva al Signore. È quello su cui noi vogliamo esaminarci ogni giorno nell'esame di coscienza: "Ho vissuto per me o per Iddio? Ho vissuto della mia vita o della vita sua?". Chi può dare una risposta? Ma almeno noi possiamo dire se vogliamo vivere la nostra vita o vogliamo vivere la sua: ed è questo che importa. Se la viviamo o non la viviamo, questo forse non Io sapremo mai pienamente; ma il volerla vivere dipende da noi. Vogliamo rinunziare a una nostra autonomia? Vogliamo essere posseduti da Lui? Vogliamo rinunziare a ogni nostra indipendenza per fare di tutta la nostra vita un atto puro di abbandono alla grazia? Lo Spirito Santo viene in noi per trascinarci con Sé. Vive nel più intimo del cuore, ma vive come principio di nuova vita; e a Lui che viene noi dobbiamo continuamente donarci, perché soltanto così noi Io possediamo. Noi possediamo lo Spirito nella misura che allo Spirito ci abbandoniamo per esser posseduti da Lui.
... ma di chi vogliamo essere?
Prima di tutto, nel discernere si impone la consapevolezza che è impossibile all'uomo una sua autonomia: l'uomo vive in un piano soprannaturale che Io fa o figlio di Dio o figlio del diavolo in ogni sua azione. Ogni tua azione è frutto di una unione, ogni tua azione è come un tuo figlio che nasce da te; ma perché un figlio nasca da noi ci vuole la cooperazione di un altro. Bisogna che l'anima sia visitata dallo spirito, si unisca in un modo nuziale allo spirito: o al demonio o a Dio. In ogni tua azione sei o sposa del diavolo o sposa del Signore. Ogni tua azione è frutto di questa unione, sicché ogni tua azione può esser detta tanto tua come di colui che è il tuo partner, il tuo compagno. Ce ne rendiamo conto? Per noi si fa presente l'Inferno quaggiù sulla terra, per noi si fa presente l'odio del demonio, la sua menzogna e la sua morte. Oppure per noi si fa presente il Regno di Dio, la sua pace e la sua gioia.
Con che rispetto l'anima userà di sé! Non sono padrone di me stesso, mai: devo saperlo. Come io debbo esser consapevole, attento per sapere a chi in ogni istante debbo donarmi! Come debbo essere vivo nella mia attesa dello Spirito per potermi a Lui abbandonare! Come debbo implorare costantemente questa visita dello Spirito che mi possegga per trarre da me in ogni istante frutti di vita, e non frutti di morte!
Se l'amore nuziale fra l'uomo e la donna giunge soltanto in alcuni momenti alla sua espressione suprema, noi dobbiamo esser consapevoli che, nel piano della vita soprannaturale, questa unione si impone per me in ogni istante. lo la vivo, Io voglia o non lo voglia. E se non voglio, quale unione io vivo? Una unione la più sozza di tutte. Guardate il capitolo 6 della Genesi: i figli di Dio che si accostano alle figlie degli uomini! Il peccato umano è sempre nel momento di questa unione misteriosa, eppure reale; unione spirituale, indubbiamente, ma anche nel corpo, anche nel piano dì una vita concreta. Prima del discernimento degli spiriti si impone di esser consapevoli di questo: che non siamo mai soli. Povero Kant! Questi filosofi non capiscono proprio nulla. Dov'è l'autonomia dell'uomo? Il piano di pura natura non esiste. Il pretendere di vivere in una autonomia già è il segno appunto di un'altra servitù, è segno di vivere, noi, quello spirito di ribellione che ha sottratto e opposto gli spiriti a Dio.
Obbedienza, presenza dello Spirito...
Ma se questo è vero, voi vi rendete conto anche qual è il segno primo perché noi possiamo, non dico esser certi, ma avere una certa probabilità di esser visitati e posseduti dallo Spirito Santo e di possedere Lui stesso nel cuore: è il segno della nostra obbedienza. Un'obbedienza che, all'estremo limite, implica la morte: "Oboediens usque ad mortem, mortem autem crucis". Non vivere per noi. Gesù non visse per Sé, dice Paolo. Il cristiano in questo deve imitare Gesù perché solo in questo, anche, darà prova, come Gesù, di essere mosso dallo Spirito di Dio. "Non sibi placuit": non visse per Sé, visse per Iddio.
Spirito di obbedienza! Sentire la necessità di questa virtù, volerla vivere in ogni istante. Un'obbedienza che non è atto di schiavitù, cioè una costrizione esteriore: è un atto di libertà interiore, è un atto di amore. È adesione a Dio che viene: è abbandono di sé all'azione dello Spirito che agisce per te. È l'atto di amore onde tu ti lasci possedere e ti abbandoni. È docilità a un principio di vita che è lo Spirito: non sei tu, eppur tuttavia non è estraneo a te perché vive nel più intimo del tuo cuore. Obbedienza, docilità, abbandono. Questo già è il segno, intanto, che in noi vive Io Spirito. Se in noi c'è questo Spirito, l'obbedienza è amore. Ricordatevi il Vangelo di stamani: si parlava di un atto, di un conservare la parola che Gesù ci ha detto, di osservare questa stessa parola; lasciare che la parola di Dio compia in noi il suo lavoro, lasciarsi investire dalla sua forza. Quando l'anima, consapevole che deve rinunciare comunque alla sua autonomia perché non vivrà mai la sua vita, sarà determinata ad abbandonarsi al Signore, a scegliere Dio per sposo, per abbandonarsi a Lui nell'amore, allora l'anima potrà anche avere questo dono della sapienza che le permetterà non solo di gustare ma di riconoscere, dì discernere lo Spirito che agisce nel più profondo di lei.
... che dilata la nostra vita...
Ora, ci sembra che non sia, in fondo, tanto difficile per un'anima che viva in questa obbedienza, o almeno che voglia vivere in questa obbedienza, discernere lo Spirito. Dio che è principio in te di vita novella, di vita soprannaturale, è Colui che ti crea. La vita nuova non è che un accrescimento di essere. In Dio il tuo essere non viene rattrappito e mortificato, ma acquista un potere di dilatarsi, di crescere, di aumentare in te. Tutto quello che viene dallo Spirito non può che prolungare l'atto della creazione divina. Giustamente, vedete, nell'esame della vita dei mistici, Bergson ha riconosciuto il segno più chiaro dell'azione di Dio in questo slancio vitale che fa sì che l'uomo superi sempre se stesso. Come l'uomo potrebbe superare se stesso se Dio non vive in Lui? Un aumento di essere non implica un atto di creazione divina? Il vivere non è per l'uomo una parabola chiusa ma una linea che sale. L'unico modo di riconoscere lo Spirito nei nostri sentimenti interiori, nelle nostre aspirazioni più intime è questo.
... nella stabilità...
E poi il fatto che vi è continuità di cammino: non solo nel cammino del nostro vivere, non solo continuità che si oppone alla instabilità, ma continuità che si oppone anche alle rotture, al raggiungimento di una mèta prefissa che chiude un ciclo e che chiude una possibilità per l'uomo di andare oltre, di proseguire in avanti. Se è lo Spirito che ti muove, il tuo cammino è continuo e non ha fine. Continuo, prima di tutto. L'instabilità dei sentimenti interiori, delle aspirazioni profonde del cuore è indice, in fondo, dell'azione del Maligno nell'anima tua. Egli opera la morte. Se Dio vive in te, indubbiamente la parola che Egli ti ha detto all'inizio, quando tu appena ascoltasti la sua voce, quella stessa parola la udrai il giorno della tua morte. Crescerà in te l'esigenza che implica questa parola, ma la parola rimane la stessa. Per questo noi abbiamo motivo di dubitare di anime che passano da una congregazione all'altra, da un'esperienza religiosa all'altra senza mai trovare dove stare. Non vi è in queste anime una vita religiosa: vi è soltanto un'esperienza umana, una volontà di conoscere tutte le cose, una volontà precisamente di divagazione interiore. Vi è per ogni anima, in qualunque stato essa si trovi, la possibilità di proseguire in questo medesimo stato, in queste stesse condizioni di vita, proseguire fino all'infinito senza la necessità di cambiare direzione, stato, condizione. Prosegui! Affonda! Và avanti senza volgerti indietro, senza volgerti per parte! Ricordate le parole del profeta Ezechiele? Gli animali che portano il carro vanno avanti a occhi fissi. La continuità, ecco il Regno di Dio. Dio è l'Immutabile; e anche la tua vita partecipa dell'immutabilità di Dio; non nel senso che tu rimani fermo ma nel senso che la vocazione rimane la stessa. Quel Dio che vive in te, è Lui che dà unità a tutta la tua vita interiore, che dà una continuità a tutto il tuo cammino. Tu prosegui, ma non cambi. È come il cammino dell'anima nell'anno liturgico: il mistero rimane sempre Io stesso e tuttavia tu non vivi mai nel medesimo modo questo mistero. È nell'affondare sempre più nel seno di Cristo, che tu vivi. Senza uscirne mai più. Così tutta la tua vita.
... e nella pace...
Ma se Dio è Creatore, se è Colui che ti ha creato, Io Spirito di Dio che si è donato a te deve manifestare la sua presenza non solo in quanto si oppone all'instabilità e alla morte, ma in quanto si oppone all'inquietudine interiore. È molto simile a quello che dicevo, in fondo, della pace: la continuità del cammino non distrugge la pace, non può essere a scapito della pace interiore. L'anima rimane ferma in questo cammino. Il cristiano cammina stando fermo, ho detto altre volte qui a voi. Non vi è possibilità per l'anima di proseguire il suo cammino veramente, un cammino in Dio, che stando immobile in Dio, che rimanendo ferma nel Signore. La pace! L'azione dello Spirito in te ha come suo segno la pace: una pace dolcissima e profonda, una pace che diviene sempre più grande, una pace che totalmente ti sommerge, una pace che nessuna cosa potrebbe mai turbare, una pace quasi sensibile, una pace quasi solida. Le cose non ti toccano, nessun avvenimento terrestre ti turba: la tua anima è ancorata in Colui che è l'Immutabile, portata da Colui che è Atto puro. Continuità di un cammino, vita che è continuo progresso in una immutabile pace, in una fermezza pura, nella stabilità, nella gioia.
... e nella gioia
Nella gioia l'anima si dilata. La vita è anche una gioia. Anzi, quanto più tu vivi, tanto più sei capace di gioia. La gioia non è che il frutto e non è che l'espressione di una presenza di vita. Quanto più Dio si comunica a te, più tu esperimenti la gioia. Non per nulla la vita del Cielo è la beatitudine stessa. Leggete il Nuovo Testamento e voi vedrete che sono precisamente questi i rimproveri fondamentali che fa Gesù o che fanno gli Apostoli ai cristiani: "Perché siete tristi?". La tristezza non è mai il segno di Dio. Non è mai l'inquietudine segno di Dio, non è mai l'instabilità segno di Dio; non è mai segno di Dio il gelo e la morte. Tu distingui il demonio, dice Serafino di Sarov, da questo: che egli è freddo, gelato. Nell'Inferno si dice che c'è il fuoco, ma un fuoco di gelo, fuoco gelato. Può sembrare strano, tutto questo, ma non vi è un fuoco che dà caldo, nell'Inferno. Non vi è calore, nell'Inferno, nessun calore: è un fuoco cui è sottratto ogni calore. Ti brucia come ti brucia il ghiaccio, ti raggela, ti chiude; quando un essere si raggela si chiude in se stesso. Il calore dilata, il gelo rafferma e comprime.
Questi segni, si noti, devono essere sempre insieme, perché un certo calore può darlo anche il demonio, ma con l'inquietudine, con l'instabilità; perché una certa continuità nella presunzione o nell'orgoglio può darla anche il demonio, ma senza la gioia; perché una pace può darla anche il demonio, ed è la morte nel sonno di un'anima che più non pensa al suo destino, è una pace che non porta calore.
I frutti interiori
Ci dice Gesù che noi dobbiamo riconoscere l'albero buono e l'albero cattivo dai loro frutti. Ma se si dovesse aspettare di conoscere lo spirito dai frutti esterni, dal risultato delle nostre azioni, lo spirito dal quale siamo mossi, noi conosceremmo lo spirito dal quale siamo mossi, dal quale siamo guidati, soltanto quando fossimo in Paradiso o all'Inferno, perché il risultato ultimo, il frutto ultimo di questa operazione dello spirito in noi, non può essere che Inferno o Paradiso; ma allora non saremo più a tempo. Come faremmo a guardarci dallo spirito che ci muove se dovessimo riconoscerlo soltanto all'Inferno quando noi ci cadessimo o in Paradiso quando Dio ce ne aprisse le porte? In che modo dunque noi dovremo riconoscere lo spirito dai frutti se non precisamente da questi frutti interni che sono del tutto inseparabili dall'azione dello spirito cattivo o dello Spirito di Dio nell'istante medesimo che tu lo accogli? A differenza di quello che avviene fra gli uomini, che il frutto di una unione si deve aspettare per nove mesi, il frutto della unione fra lo spirito umano e lo Spirito divino è immediato per l'anima che sia aperta ad accogliere l'azione di questo Spirito, e così pure dell'altro: infatti, immediato è il frutto nella pace e immediato è il frutto dell'esitazione e del dubbio; immediato è il frutto nella certezza, nella serenità, nella continuità di un cammino e immediato è il frutto nell'inquietudine, nell'instabilità di un'anima che non sa più dove andare; immediato è il frutto nella gioia interiore di cui lo Spirito colma l'anima e immediato è il frutto nella tristezza che ti opprime e ti chiude.
Sappi riconoscere lo Spirito. La pace, la gioia; massimamente sono questi due i frutti dello Spirito di Dio, come ci insegna san Paolo: "Il regno di Dio è pace e gioia nello Spirito Santo" e la nostra vita deve essere pace e la nostra vita deve essere gioia. Dobbiamo renderci conto che quando la tristezza ci opprime, in gran parte, anzi sempre, dipende dal fatto che noi ci siamo chiusi all'azione di Dio. Apriamoci dunque! Rompiamo quelle incrostazioni che ci impediscono di accogliere il dono dello Spirito divino; spezziamo il nostro orgoglio, la nostra durezza interiore e la pace di Dio si distenderà nella nostra anima e con la pace la gioia. Non faccio dello psicologismo: voi sapete che io sono nemico di ogni psicologismo nella vita religiosa. Pur tuttavia noi cristiani dobbiamo esser consapevoli di questa grande verità, che l'uomo non vive mai la sua vita e dunque deve rendersi conto se la sua vita è il segno di una presenza di Dio o porta il segno di una presenza del Maligno. Può essere e realmente è così, che questi segni non siano mai per sé probanti fino in fondo, ma lo sono almeno tanto quanto ci è necessario per proseguire tranquilli; o per doverci impegnare a rompere, a spezzare in noi qualche cosa che ci impedisca la pace, che ci renda impermeabili alla gioia, che ci renda anchilosati, paralitici da non poter continuare il nostro cammino verso il Signore.
Come faccio a sapere?
Dio vive in noi. Come Dio vivrebbe in noi se effettivamente non si manifestasse? Non ci diceva Gesù che noi lo conosceremo? Noi dobbiamo dunque avere una conoscenza di questo Spirito che vive in noi, che a noi si è donato. S'impone per noi il vivere in questa conoscenza, in questa gnosis che è esperienza di Dio, che è contatto, sia pure nella tenebra, sia pure nell'ombra, con Lui; contatto, unione con Lui che è lo Sposo. Conoscerlo! Tutto il dialogo di Serafino di Sarov con Motovilov ha come tema precisamente quello che ora noi meditiamo. "In che consiste la vita cristiana?". "Non consiste nelle opere buone, non consiste nella preghiera. La preghiera, le opere buone, l'esercizio della carità sono soltanto il prezzo che devi versare per acquistare lo Spirito. La vita cristiana consiste appunto nell'accogliere questo Dio, nel ricevere lo Spirito, nel possesso di questo Spirito che vive in noi". "Ma come faccio a sapere se posseggo lo Spirito? lo posso sapere se prego, almeno se mi applico alla preghiera; io posso sapere se esercito le virtù, perché l'esercizio delle virtù si impone a me in atti concreti. Ma come posso conoscere se posseggo lo Spirito?", diceva Motovilov. "Ma è semplicissimo, anima devota", rispondeva Serafino di Sarov. "Leggete il Nuovo Testamento e lo vedrete. Dicono gli Apostoli: Piacque allo Spirito Santo e a noi....Vedete come è semplice?". "Ma come faccio a sapere se piace allo Spirito oltre che a me?", chiedeva ancora Motovilov. "Voi dovete spiegarmelo bene dal momento che in questo, voi mi dite, consiste tutta la vita cristiana". "Andammo nella Troade e lo Spirito Santo si accompagnava con noi nel cammino. Lo avete mai visto? È venuto con voi?". "Come faccio a saperlo?", continuava Motovilov. Il Santo non sapeva capacitarsi e giustamente: non è una conoscenza che si può rivelare, che si può trasmettere: la conoscenza di Dio rimane incomunicabile, è segreta, intima, personale. Tu lo conosci se lo conosci; o piuttosto, tu lo conosci se lo ricevi; nella misura che lo ricevi tu anche lo riconoscerai. Dio ha in sé garanzie sufficienti per farsi riconoscere dall'uomo, per farsi riconoscere da ogni creatura. Tu non potrai mai scambiare Dio con le cose. Tu puoi scambiare le cose fra loro ma Dio non ha alcun rapporto con le cose; non vi è proporzione alcuna fra tutto il creato e Lui. Se tu Io ricevi, tu lo conosci e tu lo conosci nella misura che lo ricevi. Per questo il mondo non lo può conoscere, perché non lo riceve, dice Gesù nel Vangelo.
Invocare Io Spirito
Ma noi in che modo lo riceveremo? Mi sembra che qui l'insegnamento sia estremamente semplice e facile: in che modo lo riceveremo lo insegna Gesù nel Vangelo: "Se un padre non nega al figliuolo un uovo e non gli dà uno scorpione, può forse il Padre negare lo spirito buono a coloro che glielo chiedono?". Che tutta la nostra vita sia invocazione dello Spirito! Lo sappiamo: questa preghiera non può non essere ascoltata da Dio; alla invocazione dello Spirito risponde la effusione dello Spirito da parte di Dio. D'altra parte, l'invocazione stessa allo Spirito non potrebbe salire a Dio se in noi non vivesse già lo Spirito Santo. In una voce continua tu lo implori perché vive in te, e se lo implori Egli a te si comunica perché tu lo implori con un ardore più grande, con un desiderio più vivo. Aspira al Signore, prega Dio, imploralo costantemente, invocalo! Sia la tua vita una invocazione continua perché lo Spirito ti visiti e in te si effonda e ti colmi di Sé.
Implorare Io Spirito, invocare lo Spirito: questa è tutta la nostra vita. La preghiera non è la vita cristiana, ma la preghiera è condizione di questa vita cristiana che è il dono dello Spirito, perché Dio si donerà a te solo nella misura che il tuo desiderio avrà scavato in te una capacità che lo accoglie. Dio si effonde nella misura che tu offri a Lui questa capacità, questo vaso. Un'anima soddisfatta di sé, un'anima che non implora, non può esser visitata da Lui, non può esser colmata da Lui. Quanto più tu scaverai in te nel desiderio e nella speranza, tanto più Egli si donerà. Che la tua anima viva in questa continua attesa, in questa continua implorazione! E allora Dio costantemente discenderà, si effonderà, coprirà gli abissi della tua anima nella sua luce, nella sua pace.
Invocare lo Spirito! Ecco la condizione unica per ricevere lo Spirito. Noi non possiamo dubitarne: è cosa tutta di fede. Ma, anche qui, non dobbiamo ritenere che le virtù teologali non abbiano radici nel nostro essere umano concreto. La fede, se in noi è viva, ha sempre anche un carattere mistico, ci insegna san Tommaso d'Aquino. Se tu implori lo Spirito e lo implori con fede, indubbiamente la fede stessa con la quale tu implori ti darà la garanzia del dono che tu nell'istante ricevi: te la darà in questa pace, te la darà in questa gioia, te la darà in questa dolcezza profonda, intima, viva. Te la darà in questo refrigerio che lo Spirito santo porterà all'anima tua. Vedete, la Sequenza della Pentecoste, con l'implorazione dello Spirito, ci dice subito quali sono i motivi della sua stessa venuta. "Veni, Sancte Spiritus... veni pater pauperum, veni dator munerum, veni lumen cordium. Consolator optime, dulcis hospes animae, dulce refrigerium. In labore requies, in aestu temperies, in fletu solatium. O Lux beatissima, reple cordis intima tuorum fidelium. Sine tuo numine nihil est in homine, nihil est innoxium. Lava quod est sordidum, riga quod est aridum, sana quod est saucium. Flecte quod est rigidum, fove quod est frigidum, rege quod est devium...". È tutto qui. La venuta dello Spirito porta con sé il segno che la garantisce.
Invochiamolo! Viviamo non soltanto nell'attesa, ma nell'abbandono a Lui che viene, perché, guidata, mossa dallo Spirito, la nostra anima sia colmata dalla sua pace, sia liquefatta nella sua dolcezza, sia rapita nel suo amore.

* * *

Il dono dello Spirito Santo e l'esercizio delle virtù teologali

Ritiro - Napoli 12-14 maggio 1978

12 maggio
Omelia
Viviamo alla Presenza reale di Gesù Cristo
Con la santa Messa iniziamo il nostro ritiro fino a domenica. Vi chiedo di allontanare da voi in questi giorni ogni pensiero che possa distrarvi, sia della famiglia che del vostro lavoro. In questi giorni dovete essere tutte per Iddio, anche se avete dei doveri, perché il primo dovere è quello di vivere unicamente per Iddio.
Il Signore è vicino a noi, ed è imminente la sua venuta per tutti noi e fra poco noi vivremo nella sua presenza per sempre. Perciò abituiamoci fino da ora a vivere in questa presenza ed a esser contenti di Lui, dal momento che per Lui dovremo essere beati per tutta l'eternità. Egli è qui più presente di tutti gli altri, più vivo e reale della realtà di questo mondo e delle persone che ci sono vicine. Viviamo perciò nella realtà di questa presenza. Che la presenza di Dio s'imponga al nostro spirito, così che in questi giorni sentiamo davvero che la nostra vita è più piena di gioia, pur nel silenzio e nella solitudine alla quale vogliamo in qualche modo costringerci. Dio esiste ma noi non dobbiamo dirlo con le parole e crederlo con l'intelligenza: dobbiamo viverlo con tutto l'essere nostro. La fede non è semplice adesione dell'intelligenza a idee astratte, è una presa di coscienza e una percezione di tutto l'essere di una realtà viva. Il nostro mondo è Dio, questa dolcezza infinita, questa luce immensa, questo amore che ci pervade, che ci investe fin nel profondo, che ci riempie di sé: viviamo in questi giorni di Dio! Solo nella misura che cercheremo di vivere nella sua presenza, questi pochi giorni di raccoglimento e di preghiera saranno per noi una grazia grande, che può essere decisiva per la nostra vita e deve essere decisiva soprattutto per coloro che devono fare la consacrazione nella Comunità.
La consacrazione è un trasferimento di proprietà. Quando consacriamo il pane e il vino, il pane e il vino si trasformano e divengono il Corpo e il Sangue di Cristo. Nella consacrazione che noi dobbiamo fare avverrà altrettanto: ci strapperemo a noi stessi, ci daremo a Lui ed Egli prenderà possesso di noi trasformandoci in sé, in tal modo che in noi non viva più che il Signore.
Ora vogliamo accennare all'argomento di questo breve ritiro. Viviamo nell'imminenza della festa della Pentecoste; l'argomento sarà il primato delle virtù teologali. Dobbiamo vedere quale rapporto vi è fra il dono dello Spirito Santo che vive in noi e l'esercizio delle virtù teologali: fede speranza e carità.
Il dono dello Spirito Santo
Quando si parla dello Spirito Santo e della vita cristiana noi dobbiamo tener presente due cose: prima di tutto che è nel dono dello Spirito Santo che Dio Trinità, viene a noi e abita in noi; cioè non si dà a noi immediatamente il Padre e il Figlio, ma è nello Spirito Santo che Dio si dona. Lo Spirito Santo è inseparabile dal Padre e dal Figlio; pertanto nel dono che il Padre e il Figlio ci fanno dello Spirito Santo, anche il Padre e il Figlio vengono in noi e abitano in noi. Allora la prima cosa che dobbiamo tener presente è il dono ipostatico dello Spirito Santo. Prima di parlare dei doni dello Spirito Santo, dobbiamo parlare dello Spirito Santo in quanto dono. É molto più importante il dono dello Spirito Santo che non i suoi doni. Il dono dello Spirito Santo è Dio che si dona a noi, Dio che diviene nostro, Dio che vuol essere la nostra ricchezza e la nostra vita. Però lo Spirito Santo che si dona a noi, si dona per essere in noi principio quasi formale di vita della nostra anima. Dice sant'Agostino: "Quello che l'anima è per il corpo, lo Spirito Santo è per l'anima stessa". Come il corpo vive in forza dell'anima che la abita, così l'anima vive per lo Spirito Santo che le è stato donato. Però, la vita che lo Spirito Santo ci dona, non è la vita di Dio: la vita infatti è sempre la nostra medesima ma è ora una vita che, mediante questa presenza, viene tutta trasfigurata e trasformata. Essa diviene una vita deiforme, una vita divina; perché lo Spirito Santo è luce e ci illumina; lo Spirito Santo è fuoco e ci riscalda cioè investe le nostre potenze, le trasforma e le rende capaci di vita soprannaturale.
Dal dono dello Spirito Santo dipendono i doni dello Spirito Santo; è mediante i doni che la nostra attività e tutta la nostra vita diviene soprannaturale e noi agiamo in tal modo che, per usare il linguaggio di san Paolo, si può dire che non siamo più noi che viviamo, ma è Cristo che vive in noi. È per questi doni dello Spirito Santo che tutta la nostra attività, intellettuale, conoscitiva ma anche dell'amore e della volontà, si trasforma e noi viviamo quelle virtù che ci mettono in rapporto diretto con Dio: la fede, la speranza e la carità. Senza questo dono noi non saremmo capaci di esercitare le virtù teologali. L'uomo, se Dio non vive in lui, non avrà mai la capacità di superare l'infinita distanza che lo separa da Dio; nessun atto dell'uomo potrebbe mai raggiungere Dio. Può raggiungere Dio, "può salire a Dio", dice Gesù nel IV vangelo, "soltanto chi da Dio è disceso". Ora, lo Spirito Santo che Dio effonde nei nostri cuori, solleva la nostra anima e dona, alle nostre potenze, la capacità di compiere degli atti per i quali noi possiamo trascendere l'abisso del creato e raggiungere Colui che è trascendenza infinita, Dio stesso.
Le virtù teologali ci aprono al rapporto con Dio
La fede, la speranza e la carità sono le virtù mediante le quali noi non abbiamo più soltanto rapporto col mondo e con gli uomini, ma con Dio. Per avere un rapporto con gli uomini e col mondo non abbiamo bisogno di fede, di speranza e di carità. Infatti, basta avere gli orecchi per ascoltare, gli occhi per vedere, le mani per toccare ed entriamo in rapporto col mondo di quaggiù. Ma entrare in rapporto con Dio non si può senza la fede, la speranza e l'amore. E tali virtù sono il frutto di questa azione dello Spirito Santo che trasfigura, che trasforma le nostre potenze, perché possano raggiungere Dio. Noi abbiamo un rapporto col mondo perché vediamo, ascoltiamo, tocchiamo; la fede, secondo l'insegnamento dei Padri ed anche della teologia, ci dà come degli occhi nuovi per i quali noi intravediamo la realtà divina; la fede è poi, per noi, anche un nuovo modo di ascoltare. Attraverso tutte le cose, noi ascoltiamo la parola di Dio. Ed è proprio attraverso lo Spirito Santo che otteniamo questo organo nuovo che è la carità mediante la quale, come insegnano san Bernardo e san Giovanni della Croce, noi tocchiamo Dio: lo abbracciamo, lo baciamo e siamo da Lui baciati, viviamo l'unione più intima e profonda con Dio stesso. Certo non è un tocco sostanziale, non è un'esperienza sensibile: ma è certamente qualcosa di analogo all'esperienza sensibile. Proprio per questo san Bernardo può dire: "Mi baci col bacio della sua bocca" e vede in questa preghiera l'ansia dell'anima che vuole raggiungere l'unione con Dio.
L'unione con Dio si realizza nello Spirito, ma è analoga all'unione sensibile. Ecco perché il "Cantico dei Cantici" nella tradizione cattolica è considerato come il libro dell'esperienza mistica: per uno che non conosce la Parola di Dio, sembra che parli solo dell'amore umano; è un libro addirittura crudo nelle sue espressioni. La traduzione molto spesso cerca di velare certi concetti, perché è molto diretto nelle sue espressioni, come potevano esserlo i popoli primitivi nel dire le cose. Potrebbe dare anche fastidio leggerlo nella sua esatta traduzione letteraria. Ma è divenuto il libro dell'esperienza mistica perché sul piano spirituale l'uomo, mediante la fede, la speranza e la carità, vive un rapporto reale con Dio che è simile al rapporto che noi abbiamo con le cose: vediamo le cose, ascoltiamo le persone, le tocchiamo, le abbracciamo, le baciamo, siamo uniti all'altra persona. Altrettanto avviene mediante l'azione dello Spirito nella nostra vita di unione con Dio. Tutto questo si compie per il dono dello Spirito Santo e si compie attraverso le virtù teologali della fede, della speranza e della carità.
Noi dobbiamo vedere in questi giorni come, attraverso queste virtù, viviamo la vita spirituale sotto l'azione dello Spirito Santo. Ma ripeto, sotto l'azione dello Spirito Santo: perché una vita spirituale in senso umano, la vive anche chi non ha fede mentre la vita spirituale in quanto dipendente dall'azione dello Spirito Santo, è propria soltanto del cristiano che ha ricevuto il dono dello Spirito e mediante questo dono, vive in unione con Dio.
Nello Spirito santo siamo uniti a Cristo
Noi dobbiamo vedere in questi giorni la presenza dello Spirito Santo in noi che, mediante i suoi doni, trasforma la nostra attività in tal modo che le nostre potenze sono capaci di atti soprannaturali nell'esercizio delle virtù soprannaturali, con le quali noi entriamo in rapporto reale con Dio; ma questo rapporto reale con Dio è un rapporto col Cristo, perché Dio si dona a noi in Cristo Gesù. Nel rapporto col Cristo, noi lo vediamo, ascoltiamo la sua parola e ci uniamo a Lui nell'unione più intima. Nella vita spirituale termine ultimo è il matrimonio spirituale, l'unione col Cristo.
Nella tradizione della spiritualità italiana esiste un libro, il più bel libro di san Lorenzo Giustiniani, nel quale l'autore parla del casto connubio dell'anima col Verbo.
Tutta la vita cristiana termina in questa unione mirabile di noi con Cristo Gesù, così da essere con Lui un solo corpo, così da vivere in Lui una sola vita, pur rimanendo persone distinte. Egli è lo sposo e l'anima nostra è la sposa che a Lui si dona. Questo mistero non potremo certamente svilupparlo oggi perché è un argomento di una grande profondità; ma capite, se non altro, su che cosa vorremmo meditare.
È semplicissimo: in che cosa consiste la salita? Non è una cosa difficile, non dobbiamo far nulla. Non dobbiamo far nulla! Dobbiamo soltanto accogliere in noi lo Spirito divino e abbandonarci alla sua azione. Null'altro. Non dobbiamo far altro che abbandonarci all'azione di Dio il quale vive in noi. Tutto il segreto della santità sta in questa docilità all'azione dello Spirito che vive nei nostri cuori. E allora, tutta la nostra vita sarà vita di fede, tutta la nostra vita sarà vita di speranza, tutta la nostra vita sarà vita di amore. Nella fede, nella speranza e nell'amore noi vivremo l'unione più intima col Cristo e ci trasformeremo nel Cristo.
Lasciamoci fare dal Signore
Voi mi dite che è molto difficile: ma proprio per questo dovete tendere alla santità e tutti voi vi siete impegnati a raggiungerla. Tutti noi dobbiamo tendere a questa trasformazione, a questa vita divina. E ci si tende abbandonandosi, con docilità, all'azione dello Spirito Santo che vive in noi. Quando abbiamo capito questo abbiamo la chiave per entrare. Tante volte voi non sapete come comportarvi: fate una lista di propositi, di tutte le cose che dovete fare. Ma il Signore vi risponde: non devi far nulla, devi lasciar fare a me. Ma non vi sembra che sia meglio così? Oltre tutto se si fanno le liste di tante cose che si debbono fare, poi si dimenticano: oppure, se ne facciamo una si manca all'altra; invece il Signore ti chiede soltanto di essere docile all'azione dello Spirito che vive in te. Il segreto della santità è questo; se lo vivremo raggiungeremo la santità. Se non si fa questo, anche se si fa digiuno a pane ed acqua tutti i giorni, non si raggiunge la santità. Anche se si prega tutti i giorni e la notte, dormendo soltanto mezz'ora, non si raggiunge la santità. Non sono le opere nostre che fanno la nostra santità, ma è Dio che ci fa santi, perché Lui solo è santo. La santità sta dunque in questa docilità all'azione di Dio che vive in noi; questo è il segreto.
Di qui l'importanza di capire quello che debbo dirvi in questi giorni in nome del Signore; e voi cercherete di far tesoro di quello che il Signore vi dirà per mezzo mio e pregherete anche perché io stesso ne faccia tesoro, perché impari anch'io a non resistere più alla grazia, ma mi abbandoni generosamente, senza riserve, senza condizione a questo vento che mi deve trascinar via. Com'è bello essere come una piuma portati via dal vento dello Spirito! E com'è bello divenire un legno, ci dice san Giovanni della Croce, per essere totalmente consumati da questo fuoco: la docilità, se è fuoco, ci farà bruciare e noi ci consumeremo; se è vento, ci solleverà, ci strapperà a tutti legami, ci porterà nel seno di Dio. Così noi viviamo la nostra docilità all'azione dello Spirito.
Prima meditazione
Cos'è l'uomo perché Dio se ne ricordi?
Tutta la vita del cristiano dipende dall'azione dello Spirito Santo. L'azione dello Spirito Santo suppone che Egli abiti in noi, ma l'abitazione di Dio nel cuore dell'uomo non è una abitazione statica. Egli non è in noi e non dimora in noi per essere adorato, ma per operare in noi, per essere in noi principio di operazione. Tutta la nostra vita si svolge in forza di questa presenza di Dio nel nostro cuore: la nostra esistenza si trasforma, diviene una vita deiforme, una vita che non è più rapporto soltanto con le cose esteriori, col tempo e col mondo di quaggiù, ma è invece rapporto col mondo divino, rapporto con Dio.
Che cosa vuol dire che la nostra vita abbia rapporto con Dio? Una cosa semplice e immensa: vuol dire che noi, proprio in forza di questo rapporto che abbiamo con uno che trascende il tempo e lo spazio, proprio in forza di questa attività che ci solleva oltre il mondo, oltre lo spazio, oltre il tempo, già viviamo in qualche modo sottratti ai condizionamenti della vita presente, della vita terrena, già viviamo in qualche misura la vita stessa di Dio.
Tutto questo è impossibile a capirsi da parte di chi non ha fede. Infatti oggi chi non è cristiano, attraverso le filosofie moderne, viene a insegnarci che l'uomo è tutto nella storia, per cui ogni uomo, ma anche ogni secolo, è digerito via via da un processo che non finisce mai. Non c'è salvezza per nessuna persona, nemmeno per i più grandi uomini, perché anche i più grandi uomini sono digeriti poi dal tempo e dalla storia. La storia procede e l'uomo, immanente totalmente nel mondo di quaggiù, viene completamente inghiottito da questo mondo e non ha possibilità di salvarsi. La salvezza dell'uomo è una cosa assurda per l'uomo moderno, perché implica che l'uomo sia al di sopra della storia, implica che l'uomo sia al di sopra dello spazio. Ora voi vi rendete conto che cosa è l'uomo nello spazio e nel tempo? Pensate che l'universo è una vastità sconfinata formata da miliardi di galassie e sapete che una galassia, come la Via Lattea, ha più di due milioni di sistemi solari. Che cosa è mai allora la terra? Ma anche cosa è mai il sistema solare? Non è che un pulviscolo. Non dico la terra, ma il sistema solare con tutti i pianeti e col sole stesso, è un chicco di pulviscolo nell'universo. Come fa l'uomo ad emergere da questo spazio? È assurdo! Se in noi non vive lo Spirito Santo che ci dona la possibilità di trascendere questa immensità, il mondo ci distrugge. L'uomo non è più nulla; non è più nulla tutta l'umanità, è una cosa stupida tutta l'umanità. Che cosa è tutta l'avventura umana nel processo del tempo, dal momento che tale processo sono miliardi di anni, così come gli scienziati ci dicono attraverso le loro analisi? Che cos'è mai la vita dell'uomo? Ottanta anni, a volte cento. Che cos'è l'avventura umana? Quarantamila anni, che volete che siano? Nemmeno un soffio, nemmeno un respiro. Tutta l'avventura umana, tutta la storia umana è un nulla; e come dunque l'uomo si può salvare?
Nello Spirito santo viviamo già la vita stessa di Dio
Vi rendete conto che cosa sia la vita spirituale? Forse no. Eppure dire una Ave Maria è immensamente di più che andar nella luna, perché nell'Ave Maria io vado aldilà di tutta la creazione; altro che sulla luna! Nel fare un atto di fede, trascendiamo tutta la storia, non siamo più una parte della storia, non siamo più una parte di questo mondo. Se qualcuno si sente parte di questo mondo, finché farà parte di questo universo è inutile parlare di salvezza. Se l'universo ha in sé la capacità di inghiottirmi è finita; sono tutte storie il cristianesimo, sono tutte balle l'insegnamento della Chiesa. Ma Dio si è donato all'uomo, Dio vive in noi e il fatto che Dio viva in noi fa sì che in noi divenga Egli stesso principio di una nuova vita e questa nuova vita, di cui Egli è principio, è un'esistenza per la quale io non entro soltanto in rapporto con il mondo, con la storia che mi digerisce ma entro in rapporto con l'eternità che rimane, entro in rapporto con l'immensità che trascende ogni limite. Sono un nulla, meno di un pulviscolo; che cosa mai sono io? E tuttavia sono l'altro a cui l'infinito si rivolge; sono una persona che chiama l'infinito, nel suo rapporto con Dio.
Ecco la salvezza dell'uomo nel suo rapporto con Dio: l'uomo trascende questa prigione del mondo, questa prigione del tempo, trascende e sale. Tra milioni e milioni di anni io sono, perché come Dio vive l'eternità, così io vivo l'eternità perché Egli mi ama. Ma bisogna che Dio mi renda capace di fare questo atto. È una sciocchezza pensare che a noi sia possibile vivere un rapporto con Dio. Credete forse che sia possibile all'uomo vivere un rapporto con Dio se Dio non vive in Lui? Dobbiamo renderci conto che le nostre operazioni soprannaturali sono operazioni che non hanno proporzione con nessuna attività umana, con nessuna grandezza umana. Ma che cosa sono i presidenti della repubblica, che cosa sono i più grandi geni del mondo? Nullità, nel confronto di un bimbo che si rivolge a Dio dicendo: "Padre nostro che sei nei cieli". Perché nell'atto medesimo che entro in rapporto con Dio, io trascendo ogni grandezza creata; non solo la grandezza propria del mondo di quaggiù o della vita umana, ma tutta la grandezza della vastità dell'universo. Il mio atto tocca Dio, l'eterno, e trascende tutta la storia, tutta la creazione: sono più grande del sole! L'uomo vive in rapporto con l'immensità stessa di Dio. Siamo un nulla come creature, ma per la presenza di Dio in noi, diveniamo capaci di un rapporto con Lui e questo rapporto dona alla nostra vita la partecipazione medesima all'immensità e all'eternità di Dio. Tutto questo è possibile perché Dio si è donato a noi e vive in noi.
Credendo, sperando ed amando, vivo una vita divina
Capite allora l'importanza che ha l'inabitazione dello Spirito Santo nei nostri cuori. Come ho detto nell'omelia della Messa, così come l'anima è nel corpo, lo Spirito Santo è nell'anima. E ciò che l'anima è per il corpo, lo Spirito è per l'anima. Ora l'anima è la vita nel corpo, senza l'anima il corpo è morto. Infatti, che cosa è la nostra morte? È la separazione dal corpo di questo principio che è l'anima; il corpo cessa di vivere perché non c'è più il principio vitale che è l'anima, la quale ci fa vivere una vita umana. Questa vita è poco più della vita dell'animale, infatti anche noi essere umani siamo animali; animali con un'anima, ma sempre animali. L'anima ce l'hanno non solo gli animali ma anche le piante; sarà un'anima vegetale ma è un'anima, cioè un principio che dà la vita. L'anima nell'uomo è un po' diversa da quella dell'animale, ma poco più. Ma se Dio vive in te, la tua anima non vive soltanto come l'anima in un mammifero che ha anche la ragione. L'anima diviene capace di operazioni soprannaturali, diviene capace di operazioni che fanno sì che l'uomo trascenda nella sua vita il mondo presente, perché raggiunge Dio.
Le virtù teologali raggiungono Dio, toccano Dio, ti mettono in rapporto reale con la divinità e la divinità è trascendenza infinita, è trascendenza assoluta. Ed è per la presenza dello Spirito che noi viviamo questa vita di unione con Dio. Ma attenzione! Io non sono come una pisside che contiene le particole: Dio vive in me non in modo statico. Egli non rimane in me per essere adorato ma vive in me come principio vitale: come l'anima è nel corpo così lo Spirito è nell'anima mia, è un principio vitale che dà alla mia anima nuove capacità di vita. Per lo Spirito che vive in me, io credo, spero e amo: e credendo, sperando ed amando, vivo una vita divina. Vivo una vita mondana perché ho rapporto con questa mura, con la sedia in cui siedo. E' una vita mondana questa, perché se fossi morto non potrei sedermi, non potrei più avere un rapporto col mondo. Ora vivo una vita che ha rapporto col mondo, ma per il fatto che lo Spirito di Dio è principio vitale della mia anima, la mia anima nella sua attività vive ora un rapporto reale con l'eternità, un rapporto reale con l'immensità divina. Dove siamo ora? A Napoli? No, siamo nel seno di Dio! Ovunque tu sia, vivi già nel seno di Dio. Per uno che viva soltanto in questo mondo, essere qui significa stare a Napoli: ma io quando vado a Napoli, a Firenze o in qualunque altro posto, contemporaneamente vivo nel seno di Dio e perciò, ovunque io sia, sono sempre nel medesimo luogo! Ecco l'indifferenza dei santi! Essere qui o là ci deve toccare poco: non è vero però che ci tocca poco, perché questo fatto agisce direttamente sul nostro cuore. Però la nostra anima, proprio in forza dello Spirito che vive in lei, è già nell'immensità divina. Lo Spirito Santo, che vive in noi e che ci rende capaci di questa attività soprannaturale, che è l'esercizio delle virtù teologali, che cosa compie prima di tutto? Ci elargisce i suoi doni e così facendo le nostre attività divengono capaci di azioni soprannaturali, o meglio detto, l'anima nostra diviene capace di operare sul piano divino.
13 maggio
Prima meditazione
Ascendere a Dio per opera dello Spirito Santo
Dio per definizione è trascendenza infinita, ma nessuna creatura, nemmeno gli angeli, ha la possibilità di superare una distanza infinita. Tutto il cammino dell'uomo, come il cammino dell'angelo, non può avvicinarlo a Dio perché l'infinito non può essere diviso in parti. Perciò dopo aver fatto tutto il suo cammino, l'angelo si trova al punto di partenza. Chi può dare all'uomo e all'angelo il potere di superare questa distanza infinita, che non è divisibile dal momento che è infinita? Colui che può rendere possibile questo è lo Spirito Santo. E in forza di ciò, il cammino verso Dio si rappresenta nel cristianesimo non tanto come una salita, quanto come una ascensione. È un po' difficile salire sul Monte Bianco, ma anche salendovi siamo ugualmente lontani da Dio. Ma qui, non si tratta di salire su un monte, si tratta di ascendere al cielo e chi di noi potrebbe salire al cielo se non ha le ali? Ora, proprio nel Nuovo Testamento, lo Spirito Santo è paragonato al vento: al vento che porta via, al vento che trascina, al vento che solleva. Ed è proprio mediante lo Spirito Santo che noi possiamo essere sollevati fino a Dio, che possiamo salire fino a Lui in un cammino che lo raggiunge. La speranza cristiana è possibile soltanto per la presenza dello Spirito che è in noi. Senza la grazia divina è impossibile sperare di raggiungere Dio, non solo perché è impossibile per noi superare questa infinita distanza, ma perché nella consapevolezza di questa distanza infinita da Lui, la reazione dell'uomo non è nemmeno quella di cominciare a camminare, ma quella di uno scoraggiamento assoluto. Se non abbiamo la tentazione dello scoraggiamento è perché siamo dei poveri uomini che non hanno cervello. La santità è superiore alle nostre forze, superiore alle forze degli angeli, superiore a qualsiasi possibilità creata, perché la santità è la vita stessa di Dio ed è Dio solo che può darcela.
Umanamente parlando, la tentazione più grande della vita spirituale, quella che la paralizza, che impedisce all'anima di proseguire, è lo scoraggiamento. In seguito, ci sarà anche la tristezza. La forza invece che solleva, torno a ripetere, è la speranza che, solo Dio, può accendere nel cuore dell'uomo. E Dio accende la speranza nel cuore dell'uomo proprio attraverso l'azione dello Spirito in noi.
La speranza che lo Spirito Santo deve accendere in noi suppone il desiderio: ecco la prima cosa che dobbiamo affermare a proposito della speranza cristiana. Dio ci ha fatto per sé e l'uomo è essenzialmente desiderio di Dio. Lo dice San Tommaso d'Aquino, che parla di un desiderio naturale. È proprio della natura dell'uomo il desiderio di Dio perché l'uomo, elevato all'ordine soprannaturale, non ha altro fine che Dio, non ha la possibilità di raggiungere altro fine che Lui. L'uomo non può riposare che nel possesso di Dio, che però è inaccessibile. Come si può allora raggiungerlo? Avendoci fatto desiderio di Dio, Dio ci avrebbe condannati all'inferno, perché come potremmo conseguire questo premio? Infatti se Dio non trasforma il desiderio nella speranza, il desiderio di Dio diventa per noi dannazione.
Ma Dio ha trasformato il nostro desiderio in una speranza viva. La speranza suppone il fine dell'uomo e il fine dell'uomo è il raggiungimento di Dio. La nostra intelligenza vuole la verità, la nostra volontà vuole il bene, il nostro essere vuole la vita: e Dio è la vita, è la sapienza, è il bene, è la felicità suprema. L'uomo non può contentarsi di qualche cosa di meno di Dio. E d'altra parte l'uomo, da solo, non potrebbe raggiungerlo. Lo Spirito Santo che vive in noi dà alla nostra anima il potere di compiere questo cammino, di tendere a Lui e raggiungerlo realmente.
Il cammino della perfezione: la preghiera
Come lo Spirito Santo suscita in noi la speranza? Per camminare bisogna che in noi ci sia il potere di muoverci verso l'oggetto desiderato. Il desiderio si trasforma nella speranza nella misura che lo Spirito Santo dà a noi il potere di raggiungere quello che desideriamo. Ora quali sono le ali dell'anima per volare verso Dio? C'è un libro di mistica nella tradizione cristiana molto importante, "Il Cammino di Perfezione" di Santa Teresa di Gesù, un libro fondamentale della formazione carmelitana, fatto per le anime mistiche. Ma anche al Carmelo non crediate che siano tutti dei mistici perché, all'esperienza mistica, Dio chiama chi vuole. Questo libro è fatto per la formazione ed è una ascensione verso Dio. Ora, cos'è questo cammino di perfezione, questa ascensione verso Dio? Il Cammino di Perfezione di Santa Teresa è un trattato sulla preghiera. Quali sono infatti, le ali che ci portano verso Dio? È la preghiera; non c'è nessuna altra cosa che ci sollevi. Il nostro cammino, se è fatto da noi, è soltanto un cammino in discesa: lo spogliamento, l'umiltà. Il cammino invece di ascensione verso Dio, dal momento che ascendere vuol dire volare, è la preghiera. Se Dio non ci porta noi rimaniamo a terra ma Dio ci porta attraverso la preghiera.
È la preghiera che ci solleva; è la preghiera che ci innalza e la preghiera è opera dello Spirito Santo, dice proprio san Paolo nella Lettera ai Romani. Ieri noi leggemmo un testo del discorso di Gesù dopo la Cena per dimostrare come lo Spirito Santo ci fa conoscere Dio e facendoci conoscere Dio ci fa vivere la vita divina. Noi oggi dobbiamo vedere come la stessa nostra preghiera è opera dello Spirito Santo e pertanto come è in dipendenza dall'azione dello Spirito Santo che viviamo questa assunzione a Dio, questo essere sollevati fino a Lui, questo superamento dell'infinita distanza che separa noi, povere creature, dal Dio tutto santo. È san Paolo nella Lettera ai Romani che lo afferma: "Lo Spirito viene in aiuto della nostra debolezza, perché non sappiamo quello che sia conveniente domandare. Ma lo Spirito Santo intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, perché Egli intercede secondo i disegni di Dio".
Si è detto ieri sera che lo Spirito Santo è in noi causa quasi formale di tutta la nostra vita spirituale: è come il principio vitale da cui dipendono tutte le nostre attività soprannaturali. Le nostre potenze rimangono nostre, perciò tutto ciò che facciamo, anche di soprannaturale, ci appartiene, ma è anche dello Spirito Santo. È dello Spirito Santo come principio primo; è nostra, perché lo Spirito Santo agisce attraverso le nostre potenze. Attraverso la nostra intelligenza, lo Spirito Santo ci fa conoscere Dio mediante la fede e mediante il desiderio e la speranza, ci conduce a Dio.
Come vive in noi lo Spirito Santo? Come lo Spirito Santo ravviva in noi il desiderio e la speranza? Si è detto: mediante la preghiera. Pregando, la fede ci dà la conoscenza di Dio, la speranza ci fa crescere nell'amore. Questo amore però, non è ancora quello puro perché non si può sperare che ciò che ci perfeziona, quello che implica per noi il conseguimento della felicità. Infatti, questo è l'amore che ha origine dalla speranza, che a sua volta nasce dal desiderio, da un desiderio che implica una nostra deficienza. Non si può desiderare quello che già abbiamo, si desidera quello che non abbiamo e che d'altra parte ci è necessario. Ora, se Dio ci ha creato per Lui, se Dio ha voluto che in Lui solo trovassimo la vita, è evidente che solo in Lui troveremo la gioia, la felicità, la pace. È evidente che l'amore non può non desiderare Dio. Ma in questo desiderio di Dio non viviamo l'amore puro, l'amore che nasce dall'agape, ma l'amore che nasce dall'eros. È l'amore proprio della creatura che, non trovando in sé né vita né felicità né saggezza né pace, vuole possedere in Dio la pace, la gioia, la vita, quella eterna. E per questo aspira a Lui, tende a Lui: per questo vuol possedere Dio, perché nel possesso di Dio troverà la vita e la felicità. La speranza è già l'amore, ma un amore di concupiscenza, quell'amore per il quale vogliamo possedere Dio come nostra ricchezza, come nostra vita.
Avere come unico desiderio quello di Dio
Perché la speranza cresca, deve crescere in noi il desiderio. Come fare per crescere ancora nella speranza? Bisogna che ci liberiamo da tutti i desideri che disperdono le forze dell'anima. Altre volte vi ho detto che, secondo me, l'insegnamento del Budda è vero anche per noi cristiani: per Budda l'anima conquista la felicità liberandosi dai suoi desideri, perché i desideri la disperdono. Ora nella misura che ci liberiamo dai desideri avviene che tutta la nostra vita non diviene più che desiderio di Dio, non diviene più che bisogno irrefrenabile di questa volontà immensa, di questa vita eterna, di questa gioia senza fine. Che cosa fa allora lo Spirito Santo in noi? Concentra tutte le nostre potenze, perché tutte le potenze brucino nel desiderio di Dio. Come può fare lo Spirito Santo tutto questo?
Attraverso la fede. Ma fede, speranza e carità sono sempre unite: non c'è speranza senza la fede, la fede d'altra parte non vive in noi che in forza di una speranza che cresce, e d'altra parte fede e speranza troveranno il loro compimento proprio nell'amore puro.
La speranza suppone la fede: è nella misura che tu lo vedi che tutte le tue potenze sono attratte da questa bellezza; è nella misura che tu lo conosci come vita eterna che tutta la tua vita tende a Dio e non si disperde più, perché senti che è tutta perdita l'attaccarsi alle cose presenti. Tutto questo non è un distacco, è il raccogliersi delle proprie potenze nella ricerca unica di Dio, nel desiderio unico di Dio. La liberazione dai desideri è possibile in forza dell'unico desiderio, che è il desiderio dì Dio.
Quaggiù, nella vita presente, siccome viviamo in un corpo, noi possiamo disperderci nei desideri propri della vita animale: non intendo dire soltanto di una vita bestiale ma di una vita animale in senso esteso. Questo tipo di vita ha la sua radice nella mente. Nella nostra esperienza psicologica si possono desiderare tante cose: l'amore di una donna, l'amore dei figli, la realizzazione di sé nella politica, nella professione. Si può desiderare la ricchezza per star meglio; si può desiderare tutto questo e altro ancora: dunque siamo dispersi. Ma nella misura che Dio, sempre più si fa presente all'anima, noi sentiamo che tutte queste cose, in quanto sono alternativa a Dio, non donano qualche cosa alla nostra vita, ma piuttosto ci distraggono. Bisogna che tutte le cose che noi possiamo desiderare, divengano soltanto un mezzo all'acquisizione di Dio, non siano più alternativa a Dio. Una sposa deve amare il marito, una madre deve amare i figli: ma devono farlo non come alternativa a Dio. Si deve amare il marito in Dio e per Dio e così i figli perché il vero amore è tale solo se vissuto in Dio. Se voi non amate i vostri figli in Dio, voi non amate nemmeno i vostri figli. Come si può amare un figlio se non si ama in Dio? Come può pretendere una madre di amarlo senza volere la sua salvezza eterna? Non si può amare Dio e i nostri figli; si ama Dio nei figli e i figli in Dio. Si ama il marito in Dio e Dio nel marito; non c'è alternativa! Ricordatevi che l'alternativa è idolatria, perché la creatura non si assomma a Dio, perché Dio è l'unico.
Che cosa dice la prima preghiera che noi diciamo in Comunità? "Ascolta Israele; il Signore è nostro Dio, il Signore è uno solo!" Proprio per questo, il cammino naturale della massima parte degli uomini, è andare a Dio attraverso il matrimonio: ma è anche vero che oggettivamente rimane più perfetta la verginità. La verginità immediatamente tende a Dio, mentre il cammino del matrimonio è un cammino naturale ed è pericoloso, perché ci si attacca alla persona amata che non si riesce a vedere in Dio: ci si attacca ai figli e non si amano in Dio. E nella misura che non si amano in Dio, ci portano lontano da Dio e divengono un'alternativa che ci impedisce il conseguimento della santità. Non solo fa male a noi questo amore ma fa male anche a loro perché non si amano in modo tale da far sì che essi debbano raggiungere la loro perfezione ultima, la loro felicità suprema.
Ci vuole lo Spirito Santo per amare Dio
Di qui capite il perché, anche oggi, sia giustificato l'insegnamento del primato della verginità, anche se saranno pochissimi quelli che vi sono chiamati immediatamente perché è un cammino pericoloso se non vi ci porta lo Spirito Santo attraverso un carisma particolare. Rimane però pericoloso anche il matrimonio. La verginità è pericolosa perché è difficile viverla come impegno di amore. Nella verginità il pericolo è questo: ci si chiude in noi stessi, si diventa più egoisti. Mentre nel matrimonio ci si libera dal proprio egoismo, dall'amore di sé stessi, perché chi si sposa deve pensare al coniuge ed eventualmente ai figli, deve lavorare per loro.
Ci vuole lo Spirito Santo che, mediante il desiderio di Dio, libera l'anima da ogni attaccamento perché essa si volga a Dio in un amore che non è ancora amore puro ma comunque è già quell'amore per il quale tutti i desideri si raccolgono in Dio e fanno sì che l'anima a Lui tenda in un cammino sempre più pieno, sempre più forte, sempre più vivo. Questo cammino, si esprime nella preghiera. Noi possiamo soltanto ricevere Dio e il modo per riceverlo è aprirsi sempre di più in una preghiera di speranza, alla quale Dio ha promesso di donarsi. La preghiera è efficace, perché Dio risponde alla preghiera donandosi nella misura della verità del desiderio che viene messo nella preghiera, nella misura della verità della speranza. La vita della speranza dell'anima, è la preghiera che attende: se speri, è perché tu sai benissimo che da te non puoi fare e attendi che un Altro provveda a quello che tu non puoi realizzare.
L'attendere, come insegna la speranza, è pregare come se si avesse già ricevuto, dice san Giovanni nella sua Prima Lettera, perché tu sei talmente sicuro dell'amore divino, che basta che tu apra il tuo cuore perché Dio lo ricolmi di Sé. L'anima umana è capacità di Dio, e se si apre a Dio nella speranza, immediatamente è colmata dal dono di Dio. Via via che Dio si dona, colma il vuoto che ogni essere umano è, ma nello stesso tempo anche lo dilata perché possa accoglierlo sempre di più.
La vera preghiera chiede a Dio… Dio
All'inizio della nostra vita spirituale ci accontentiamo di andare in paradiso, ma forse non sappiamo nemmeno che cosa sia il paradiso. Via via che lo conosciamo e via via che Dio risponde alla nostra preghiera, noi gustiamo sempre più la sua dolcezza ineffabile, noi siamo sempre più affamati di questa bontà immensa e l'anima nostra si dilata in un desiderio sempre più vivo, in una speranza sempre più certa; cresce la vita spirituale attraverso le virtù teologali, tanto che non ne puoi conoscere la fine, perché la vita cristiana è il raggiungimento di Dio che è infinito.
Questa è la grandezza della vita cristiana: noi possiamo crescere sempre e la vita dell'anima può essere una giovinezza perenne. Nella vita cristiana noi possiamo essere sempre giovani spiritualmente, perché non c'è fine nel crescere in noi della speranza. Sollevato dallo Spirito di Dio, si può procedere sempre in questo cammino e in effetti si procede nella misura che cresce in noi, col desiderio di Dio che noi conosciamo ogni giorno di più, anche una speranza viva, certa che a Lui conduce, che a Lui solleva.
Questa speranza si manifesta, dicevo, nella preghiera. La preghiera vera non è la preghiera che consiste nel chiedere ma quella che risponde a questo desiderio essenziale della natura umana, che è di conseguire il bene infinito che, solo, risponde all'esigenza dell'uomo. Infatti l'uomo è l'unica creatura fatta capace di Lui: "Tu ci hai fatto per te ed è inquieto il nostro cuore fintanto che in te non riposa" dice sant'Agostino. Di qui ne viene, che noi dobbiamo pregare non per chiedere le cose ma per chiedere Lui. La vita non è più che mezzo al conseguimento di Dio. Evidentemente via via che cresce in te la speranza e il desiderio unico di Dio, viene meno in te il desiderio delle altre cose.
Vi ricordate quello che dice Gesù nel Vangelo di san Luca? Usa l'esempio del re che, volendo combattere contro un altro re, prima considera di quanti armati ha bisogno per vincere l'esercito che gli viene incontro. E questo perché se si accorge che non ce la fa, manda un ambasciatore di pace piuttosto che combattere. E che cosa dice Gesù al termine di questo discorso? Dice che chiunque non rinunzierà a tutto ciò che possiede, non potrà essere suo discepolo. Sono parole paradossali; sembra che Gesù voglia insegnarci che i mezzi più proporzionati al fine del raggiungimento di Dio sono tanto più efficaci quanto più sono poveri. Cioè tu sali tanto più, quanto più vai all'indietro; tutto quello che porti con te diviene zavorra. Per poter salire, bisogna che si sia liberi da tutto, che si sia una piuma perché il vento possa portarci. La povertà è condizione al volo, ma anche la castità e l'obbedienza. Perché lo Spirito ti porti su in alto, devi liberarti da ogni legame a te stesso, da ogni legame alle cose. Ecco perché noi amiamo tanto e riconosciamo in san Francesco di Assisi la perfezione della vita cristiana: per questa povertà, per questo bisogno di sottrarsi a tutto, ad ogni legame, per essere disponibili solo al bisogno di Dio.
Il mio peso è l'amore
Ma dovete andare piano, perché la povertà assoluta non è possibile fintanto che viviamo nella condizione terrestre. Fintanto che non c'è la speranza che cresce in voi, è naturale che il nostro cuore si appoggi alle cose, non perché le cose debbano essere un'alternativa a Dio ma perché ne abbiamo bisogno. Infatti se ci manca la salute, Dio stesso non ci dice più nulla: cominciamo ad essere sgomenti, sempre preoccupati di noi. Invece di pregare di più, preghiamo di meno, perdiamo anche la fiducia in Dio. Siamo così poveri, così piccini che abbiamo bisogno di appoggiarci a delle stampelle; se ci mancano, siamo subito turbati. Perciò camminiamo con misura in questo cammino di liberazione così importante. Il liberarci in modo troppo repentino di tutto i nostri attaccamenti, può divenire una condizione di turbamento, di sgomento, al punto da non rende più piena la vita spirituale e forse, anzi, potrebbe allontanare da Dio. Ma se cresce in noi il desiderio di Dio, allora che cosa ce ne facciamo di due macchine, della televisione o del giornale: che cosa ce ne facciamo di essere deputato al parlamento, di avere un buono stipendio? La vita di Dio ti riempie in tal modo, che Egli può sostituire ogni cosa. E al termine della vita, Dio sostituirà tutto, perché tutto ci mancherà ma in Dio tutto possederemo.
Liberata da tutto, l'anima non diviene che una fiamma che s'innalza verso l'alto, come dice sant'Agostino nelle "Confessioni": "Il mio peso è l'amore"! E l'amore dell'uomo porta l'uomo a Dio in una fiamma viva, in una ascensione unica, totale, dell'essere. Vivere questo, miei cari! Questa è la vita; questo noi vivremo non in forza di un nostro sforzo, che è inutile, vano. Se la vita cristiana vi dicesse di fare delle grandi prodezze voi dovreste mettervi a farle: ma se vi dice di raggiungere Dio, vi trovate nella impossibilità assoluta di poterlo raggiungere e allora che cosa fare? Lo dicevo ieri sera, lo ripeto stamani: l'unica cosa che ci è chiesta è abbandonarci allo Spirito. Vi ho detto che dobbiamo liberarci dai nostri desideri futili: ma questa liberazione nasce dal fatto, anche qui, che assecondando docilmente lo Spirito, noi sempre più siamo ravvivati da questo desiderio unico di Dio.
Omelia
La meta da raggiungere è sempre oltre
Ogni ideale umano si può raggiungere, ma Dio non si può raggiungere. La speranza ci porta sempre in un cammino continuo perché Dio rimane al di là. Fintanto che tu sei in cammino, fintanto che un'ansia divina ti spinge, tu rispondi allo Spirito. Chi si ferma, chi si contenta di sé non risponde allo Spirito; e quante sono lo anime pie che sono soddisfatte di sé e credono di aver raggiunto qualche cosa, perché dicono il rosario la sera, perché fanno la loro opera buona, ma non vivono la vera vita spirituale che è cammino!
Invece quando vedete dei giovani che non sono contenti di nulla, abbiate fiducia: non esser contenti di nulla vuol dire che vogliono Dio. Non lo sanno, lo dice la Lettera ai Romani dove sta scritto che non sappiamo nemmeno noi che cosa chiedere: ma essi, rispondono a questa vocazione intima dell'uomo, perché Dio ci ha fatti per sé e l'uomo non può esser contento fintanto che in Dio non riposi. Ma Dio non è una formula, non è mai un concetto mentale: Dio non è un ideale che può essere raggiunto. Dobbiamo mantenere viva in noi quest'ansia, dobbiamo vivere questo sforzo. È necessario vivere questo continuo superamento di se stessi per procedere oltre, per entrare nel puro silenzio.
Che il Signore ci doni la grazia di vivere quest'ansia, questo bisogno di un trascendimento infinito! Sola nella misura che noi siamo fedeli a questa spinta divina noi viviamo ha speranza che ci porta in Dio.
Siamo figli di Dio nel Figlio per mezzo dello Spirito
La vita del cristiano, dice San Paolo nella lettera ai Romani, è la libertà; siamo infatti figli di Dio. La legge è propria degli schiavi ma noi siamo figli e il figlio non obbedisce, ma ama perché lo Spirito Santo vive in lui; è in forza dello Spirito che noi viviamo la vita di Dio. È in forza di questo Spirito che noi, ora, abbiamo fatto subentrare a una conoscenza puramente sensibile, ad una conoscenza puramente razionale, la fede. Dobbiamo trascendere i desideri solamente terreni come ad esempio la volontà d'instaurare un ordine sociale, che pur dobbiamo volere perché anche noi mangiamo e anche noi siamo cittadini di una città; dobbiamo però trascendere questo piano per vivere la docilità all'azione dello Spirito. La libertà dell'amore è lasciarsi portare dallo Spirito. Ed ecco allora la vita cristiana, che è dipendenza e docilità allo Spirito che è in noi, principio di una vita nuova. Non più semplicemente uomini, non più soltanto cittadini di una città ma figli di Dio e perciò partecipi della sua stessa vita perché figlio, è colui che riceve la vita e la natura dal padre. E allora, se Dio è Padre, non lo è in quanto semplice creatore perché se lo fosse per tale ragione, sarebbe padre anche dei gatti; infatti egli ha creato i gatti ma non per questo è loro padre. Per essere Padre, Dio deve comunicare se stesso, deve comunicare la sua natura e la sua vita. Ci ha comunicato la sua natura perché ci ha dato il suo Spirito; ci fa vivere la sua vita, perché mediante lo Spirito noi viviamo le virtù teologali e nelle virtù teologali abbiamo la stessa conoscenza che Dio ha di sé e lo stesso amore che Egli è.
Noi amiamo con l'amore stesso di Dio. La festa della Pentecoste, miei cari fratelli, è la festa per la quale noi viviamo adesso, in questo momento, la redenzione compiuta dal Cristo. Certo che tutto dipende dalla morte e risurrezione di Gesù, ma fintanto che Gesù non manda il suo Spirito, noi non lo possediamo. La redenzione che il Cristo ha meritato con la sua morte e resurrezione viene comunicata agli uomini quando Gesù manda il suo Spirito, perché mandandolo ci fa vivere la sua medesima vita.
Può vivere, questo tavolo, della mia vita? No, perché non fa parte del mio corpo; solo il mio corpo vive dell'anima mia, che ne è il principio vitale. Così anche noi vivremo la vita del Cristo quando lo Spirito del Cristo ci avrà uniti in sé come unico corpo. E perché lo Spirito del Cristo viva in noi come spirito che ci anima, bisogna che il Signore ci doni il suo Spirito. Ecco perché nostro Signore prima di ascendere al cielo dice agli Apostoli che necessario per loro che lui se ne vada, perché se non se ne andrà non potrà mandare lo Spirito, ma quando se ne sarà andato, manderò il suo Spirito. Ecco la nostra condizione immensamente superiore nei confronti degli stessi apostoli: fintanto che gli apostoli hanno vissuto con Gesù, durante la sua vita mortale, vivevano una vita e Gesù un'altra vita. Potevano volersi bene come io voglio bene a voi, ma io non sono voi e voi non siete me. Così gli apostoli non erano Gesù e Gesù non era gli apostoli. Ma quando Gesù manda il suo Spirito, tutti gli apostoli divengono membra del suo Corpo perché vivono la sua medesima vita. Tutti coloro che posseggono un unico Spirito divengono un unico corpo vivente, divengono il Corpo del Cristo.
La festa di Pentecoste
Di qui la festa della Pentecoste, miei cari fratelli, che porta a compimento il mistero pasquale. Senza la Pentecoste Dio poteva aver meritato la salvezza degli uomini, ma gli uomini non vivevano ancora questa salvezza. Per vivere questa salvezza hanno bisogno che lo Spirito del Cristo sia loro infuso. Ecco perché, pur essendo la morte e resurrezione di Gesù il principio e il fondamento della salvezza e della redenzione del mondo, il mondo non può esser salvato concretamente che in quanto lo Spirito Santo discende sopra ciascuno di noi. La celebrazione della Pentecoste è estremamente importante, perché tutti noi dobbiamo ricevere lo Spirito ed è in forza di quanto lo Spirito vive in noi, che il Cristo vive in noi e noi siamo una sola cosa con Lui, per vivere la stessa vita divina.
In questo giorno, dobbiamo implorare lo Spirito Santo che discenda su ciascuno di noi perché si rinnovi, come dice il salmista, tutta quanta la terra: "Effondi il tuo Spirito sopra la terra, sopra di noi e si rinnovi il volto di tutta la terra" dice la Chiesa. Proprio per questa effusione, proprio per questo dono dello Spirito, tutta la creazione deve rinnovarsi. E questo, non avviene come quando la natura si rinnova dall'inverno alla primavera. O come si rinnova la vita di una nazione quando viene liberata, per esempio, dalla schiavitù o dal dominio di un'altra nazione e riacquista così la sua libertà. Ma il rinnovamento di tutta la creazione, per l'effusione dello Spirito Santo, deve essere tale da ottenere una vita che trascende quella puramente biologica, per entrare in comunione con la divina Trinità per tutti i secoli eterni, per vivere la vita stessa del cielo.
Questa è la vita che noi dobbiamo implorare da Dio! Ed è una vita che non esclude, intendiamoci bene, anche l'eventuale liberazione dall'oppressore o la vita biologica stessa. Ma queste realtà sono infinitamente trascese dal dono dello Spirito che ci fa già partecipi della vita stessa di Dio. Per questo la Chiesa, nel Prefazio, canta che in forza di questo dono esulta tutta la terra; davvero tutta la terra ora vive la gioia pura del possesso di un Dio che non le sarà mai più tolto. Anche noi dobbiamo implorare che lo Spirito Santo discenda su di noi e ci rinnovi e ci faccia figli di Dio e ci faccia vivere la vita di Dio in una fede più viva, in una speranza più certa, in un amore più puro.
14 maggio
Prima meditazione
Deus Caritas est
Dallo Spirito Santo dipende tutta la vita spirituale del cristiano. Vi ho detto qualcosa della vita di fede e di speranza, che si esprime nella preghiera come frutto dell'azione dello Spirito in noi. Ma già si è accennato ieri nell'omelia che, per il dono dello Spirito Santo, è soprattutto la carità che viene effusa nel cuore dell'uomo ed è all'esercizio soprattutto della carità che viene giustamente attribuita l'azione segreta, ma efficace dello Spirito Santo nei nostri cuori. Ci siamo richiamati per questo al testo dell'Epistola di san Paolo: "La carità di Dio è stata effusa nel nostro cuore per lo Spirito Santo che ci fu donato", cioè dal dono dello Spirito d'amore. Che cos'è questo amore? L'amore suppone la distinzione e crea l'unità; suppone l'unità che sussiste soltanto nella distinzione delle persone.
Per avere una certa idea dell'amore, noi dovremo studiare più attentamente quello che è Dio in se stesso, perché l'ultima rivelazione che la parola del creatore ci ha dato dell'essere di Dio, è questa: "Dio è carità, Dio è amore". "Deus caritas est". Si può comprendere l'amore, così come si comprende Dio; per cui se Dio è incomprensibile, è incomprensibile anche la carità. Tuttavia quanto noi possiamo intravedere del mistero di Dio proprio in forza della rivelazione divina, tutto questo anche ci aiuta a comprendere la natura, il carattere e le operazioni della carità. Perciò noi dobbiamo parlare decisamente di Dio. Di Dio in sé stesso, di Dio nella sua intima vita, nelle operazioni che Egli ha compiuto.
Dio in se stesso ci rivela che è essenzialmente Uno. Direi che in tutto l'Antico Testamento la perfezione che maggiormente lo rivela è la sua Unità. Anche oggi è l'ebraismo, come anche l'Islam, che soprattutto proclamano la sua Unità trascendente: Egli è Uno, Uno solo! Noi lo diciamo ogni giorno: "Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno solo". L'Unità di Dio però, è una unità ben diversa da come noi possiamo pensarla. L'essere creato non è, ma possiede; non è, ma ha. A proposito del nostro vivere, noi dobbiamo coniugare il verbo avere, mentre a proposito dell'Essere divino, dobbiamo coniugare il verbo essere.
Io ho, ma non sono, perché quello che sono, lo ricevo da Lui. "Che cosa tu sei, che tu non abbia ricevuto?" Che cosa hai che tu non lo abbia ricevuto? L'essere stesso è un dono che Dio ci fa; noi non siamo per noi stessi, siamo perché Dio ci ha creati. L'essere stesso, dunque, lo riceviamo da Dio. Il riceverlo vuol dire che non siamo l'essere ma lo possediamo per una sua partecipazione.
Dio è l'assoluta, eterna, infinita povertà!
Qui è la differenza fra l'unità che si trova in Dio e l'unità che io posso ritrovare nella creazione. L'unità nella creazione è il vuoto perché, se togli quello che la creatura possiede, essa non è; dunque bisogna che la creatura sia molteplice. Quanto più ha, tanto più è, perché l'essere della creatura, siccome è un dono, si misura da quanto riceve: tanto più è quanto più riceve. In altre parole, l'unità della creatura, senza la molteplicità, è puro vuoto, pura capacità; e dire unità, vuol dire povertà. Quando di uno si dice che ha due o tre milioni, che possiede quattro o cinque palazzi, ha quattro ville al mare, cinque o sei in montagna, allora è qualcuno, perché l'essere per noi implica l'avere. In Dio non è così. Dio non ha bisogno che all'essere suo si aggiunga nulla. Non solo, ma non può neppure aggiungere nulla, perché Egli non ha, Egli è. In altre parole, Dio è l'assoluta, eterna infinita povertà. Sì! Egli è essenzialmente povero. Essere ricco vuol dire avere, Dio invece non ha nulla. L'essere di Dio non si esprime per quello che ha, appunto perché Egli non possiede. L'essere di Dio si esprime per quello che è. E che cosa è Dio? È l'Infinito, è l'Eterno, è il Bene; è la Sapienza, è la Verità, è il Tutto. Non ha nulla, ma è tutto. L'avere vuoi dire ricevere, vuoi dire un'aggiunta all'essere. L'essere creato è pura indigenza, è vuoto che Dio riempie con i suoi doni. Dio non può ricevere nulla, perché Egli è già tutto. Egli è, non ha. L'avere suppone la costituzione dell'essere primo, a cui si aggiunge poi un avere. A Dio non può essere aggiunto nulla.
Che cosa puoi aggiungere all'Infinito? Quanto fa l'Infinito più uno? All'infinito non si può aggiungere assolutamente nulla; contraddice all'essenza stessa dell'infinito poter aggiungergli qualche cosa. Per questo, l'unità di Dio è ben diversa dall'unità della creatura. Quando io parlo dell'unità della creatura, parlo del vuoto; l'essere senza l'avere per la creatura è vuoto. L'essere di Dio, proprio senza l'avere, è totalità, beatitudine infinita, immensa, eterna.
Come ama Dio se è Uno?
Ora non può mancare a Dio la perfezione dell'amore, dal momento che l'amore è una perfezione; ma come fa ad essere amore se è Uno? Per amare ci vuole l'amante e l'amato. Ma potrei anche amare me stesso e dunque essere uno. Sì, è vero! Ma è a causa dell'imperfezione propria del nostro amore che possiamo ripiegarci sopra noi stessi; l'egoismo non può far parte della totalità del vero amore. È una imperfezione dell'essere questo amore che ci chiude in noi stessi. Di per sé l'amore invece è il rapporto che uno può avere al di fuori di se stesso. L'essere creato, e anche Dio, se ama, deve essere rapporto reale con un altro; ma come può Dio essere rapporto reale con un altro, se l'Unità di Dio suppone le persone distinte in questa stessa unità? Egli "è uno in tre persone uguali e distinte" dice il catechismo. L'unità di Dio non si moltiplica. Egli rimane uno, ma è proprio il fatto dell'essere uno in tre persone distinte, che rende possibile la definizione di Dio come amore. Se fosse uno senza essere trino nelle persone, non sarebbe amore. Se fosse trino e non fosse uno, non sarebbe ugualmente amore, perché l'amore non sarebbe perfetto. Se Dio fosse amore per i rapporti con noi, sarebbe un Dio ben povero, un Dio che non sarebbe più Dio, perché se Dio diviene amore soltanto congiunto alla creazione, Egli non potrebbe amare nessuno infinitamente come ama Se stesso. L'essere che ama, se vuole essere tutto amore, deve donarsi totalmente all'altro che ama. Ora nessuna creatura può ricevere totalmente Dio perché la creatura è finita, e Dio è infinito. Dio non sarebbe amore, se fosse amore soltanto in quanto ci siamo noi; questo amore dimostrerebbe che Dio stesso è imperfetto, che Dio stesso non realizza l'essere suo, perché la realizzazione di sé, come amore, suppone un altro da sé, ma uguale a sé.
Dio dunque è amore perché è uno e perché, nello stesso tempo, è trino nelle persone. L'amore cioè è nell'intimo stesso di questa unità per la quale il Padre dona tutto Se stesso, cioè tutta la natura divina al Figlio e il Figlio ritorna a donare tutto Se stesso, cioè la natura divina, al Padre. Il dono è l'unità. una unità che viene generata ed è posseduta. Viene generata dal Padre ed è posseduta dal Figlio: è donata dal Figlio al Padre, in una offerta di pura relazione. Così il Padre vive nel Figlio e il Figlio vive nel Padre nell'unità di un amore che è l'unità stessa della sua natura che è pienamente donata nella distinzione delle persone che si amano.
Perché Dio è trino?
Se questo è vero, possiamo fare una obiezione: perché invece di essere due, sono tre le persone? Osservate la famiglia umana: se la famiglia si chiude, marito e moglie, diventa una monade chiusa. Se tu ami veramente e ti leghi all'altro per amore e se il tuo è amore perfetto, tu non puoi pretendere di essere il solo ad amare: devi volere che anche altri amino. L'amore se deve essere totale, non può essere limitato. Dio, essendo amore, non è soltanto Padre e Figlio, ma è Padre, Figlio e Spirito Santo. Questo vuol dire che tre persone divine, esprimono la natura stessa dell'amore meglio che due persone divine. Unità della natura e trinità delle persone; questa deve essere la rivelazione suprema dell'amore, se Dio è amore. Dio è amore essendo uno nella natura e trino nelle persone.
Dunque il rapporto di amore non può essere limitato. Qualche cosa di questo si vede anche nella famiglia umana, perché non sono due che si amano; c'è anche il figlio fra di loro, sul quale converge l'amore della madre e del padre. Il figlio rompe l'unità del marito e della moglie, amando sia la madre che il padre. Anche nella famiglia umana l'amore, se è perfetto, indica che la qualità del rapporto marito e moglie si rende più profondo con un altro rapporto che crea una unità nuova, la famiglia. Fra lo sposo e la sposa il rapporto è divino, perché non c'è soltanto il rapporto nuziale dello sposo alla sposa e della sposa allo sposo; c'è anche il rapporto di maternità e di paternità nei confronti del figlio e il rapporto filiale da parte del figlio nei riguardi della sposa e dello sposo che diventano la madre e il padre. Qualche cosa di simile avviene anche in Dio. Infatti lo Spirito Santo, secondo quello che dice sant'Agostino, è l'unità del Padre e del Figlio.
Ora noi troviamo due cose da affermare solennemente nella natura dell'amore, così come si esprime in Dio: la necessità dell'unità originaria e dell'unità come frutto ultimo. Unità originaria: la natura divina. Unità come frutto ultimo dell'amore: la Trinità. Lo Spirito Santo è l'unità del Padre e del Figlio, del Figlio col Padre che si uniscono.
Tutto questo dobbiamo trovarlo poi nell'azione dello Spirito Santo che agisce in noi. Le persone umane sono più di tre, tuttavia dobbiamo essere uno. Dobbiamo vedere allora come lo Spirito Santo opera, Lui che è l'amore personale del Padre e del Figlio, Lui a cui si attribuisce l'amore stesso.
Lo Spirito Santo opera l'incarnazione del Verbo
Abbiamo già detto che la vita spirituale dipende dall'azione dello Spirito. Come lo Spirito Santo opera in noi e ci fa vivere l'amore? Si è detto che il Padre, per il Figlio, nello Spirito Santo si comunica a noi; dunque nel dono che Dio ci fa nello Spirito Santo, Dio si comunica a noi, Dio vive in noi. Ora in che modo Dio si manifesta presente in noi? Che cosa opera lo Spirito Santo comunicandosi all'uomo? Comunica l'amore. Lui che è amore sostanziale e perfetto, lui che è amore infinito ed eterno, lui che è amore increato, si comunica a noi in modo reale, trasformandoci in qualche modo in amore. Questo amore come si esprime? Si esprime come unità di una molteplicità di rapporti che si riducono all'unità. Quale unità? Qual è l'opera per eccellenza dello Spirito Santo, che noi diciamo ogni volta che recitiamo il Credo? "Si incarnò per opera dello Spirito Santo". Dunque l'opera dello Spirito Santo è l'incarnazione del Figlio di Dio. Che cosa avviene nell'incarnazione del Figlio di Dio? Avviene una unità mirabile, straordinaria, unica nel suo genere e che per noi è incomprensibile. Dio e l'uomo, tempo ed eternità, sono una creatura sola: Cristo Gesù. Il mistero dell'incarnazione è il mistero dell'unità più paradossale che si possa pensare. Non è una unità come quella di Dio, è una unità che, per opera dello Spirito Santo, nasce da questa persona divina, che è la persona del Verbo che è unica nella natura divina e nella natura umana. In tal modo che la persona del Verbo, che è tutto Dio, è anche, insieme, Dio e uomo. Tutto Dio è l'uomo. Di qui ne deriva che il mistero dell'incarnazione assume questa unità paradossale: la creatura e il Creatore non sono la stessa cosa, eppure sono uno. Tempo ed eternità non sono la stessa cosa eppure, tuttavia, sono la vita di un essere solo: Cristo Gesù. Tempo ed eternità coincidono nell'unità personale del Verbo. Creazione e Creatore coincidono nella persona del Verbo. Dio e l'uomo, che sono ad infinita distanza, che sono gli estremi dell'essere, coincidono nella persona del Verbo incarnato, nel Cristo. L'opera dello Spirito Santo è l'unità, ma non più l'unità di Dio solo, ma anche l'unità di tutta la creazione. La creazione diviene una in Dio; lo Spirito Santo realizza questa unità paradossale per cui la creazione e Dio sono il Cristo.
Che rapporto fra Dio e la creazione?
Che cosa vuol dire che la creazione e Dio sono il Cristo? Forse Dio riceve qualche cosa? No certo; la creazione è già ordinata all'incarnazione del Verbo fino da quando Dio lo ha voluto. San Giovanni della Croce in uno dei suoi scritti, dice queste parole che sono metafisicamente chiare, anche se non riusciamo a capirle: "la creazione è Dio". Se dico "io sono", Dio non è più uno: a Dio non si aggiunge la creatura, a Dio non si assomma nulla.
Si è detto prima che l'infinito più uno fa l'infinito. Non si può sommare nulla all'infinito, dunque neppure la creazione a Dio. La creazione è Dio. Ma la creazione non è Dio. Allora come si può capire tutto questo? Se dico la creazione è Dio, io identifico la creazione con Dio. Ma se dico la creazione è in Dio, accenno a quel misterioso rapporto che la creatura ha con Dio che trae dal nulla questo essere. Dal nulla no: il nulla non esiste, il nulla non è. È in forza di un atto libero e gratuito che Dio stabilisce la creazione. Dio stabilisce la creazione per questo atto contingente e libero, ma che è al tempo stesso divino, perché è atto di Dio. La creazione in sé è voluta da lui liberamente, ma è voluta in ordine alla realizzazione di sé come atto di libertà.
È un po' difficile quello che vi dico. La creazione è voluta da Dio come atto della sua libertà, mentre la processione delle persone divine è atto di necessità, non atto di Dio come libertà, perché fa parte della sua natura. L'atto che costituisce la creazione è l'atto di Dio come libertà, perché la creazione non è necessaria a Dio. Dipende soltanto dalla sua volontà libera. Però è atto di Dio e l'atto di Dio non è Dio stesso? Che cosa ne viene di qui? Che la creazione è voluta da Dio in ordine ad essere assunta, ad essere come partecipazione della divinità, dirà la teologia della Chiesa orientale. La creazione avrà raggiunto la sua perfezione, quando essa diverrà Dio per partecipazione di amore. Tutta la creazione tende a Dio nell'uomo: forse anche in altre creature intelligenti, forse anche nell'angelo.
Il nulla non è qualche cosa, è solo una espressione antropomorfica del linguaggio, perché non ci si può esprimere in altro modo; è il nulla che accoglie il tutto divino. Vi è progressione in qualche modo fra il nulla e il tutto, perché il nulla, dicevo prima, è come una capacità che accoglie l'Infinito. Le creature sono in ordine ad accogliere Dio. Si è detto prima che l'essere della creatura si deve coniugare col verbo avere. Io sono? No! Non sono! Anche l'essere che posseggo, lo ricevo da Dio e lo ricevo in ordine ad accogliere Dio, perché Dio non può dare altro che Sé stesso. La creazione è condizione soltanto di questo suo fine ultimo che è l'Incarnazione del Verbo, che è Dio egli stesso. L'uomo è Dio: ecco il Cristo. La creazione è Dio in Cristo Gesù. L'uomo è Dio in Cristo; ma l'uomo non cessa di essere tale nel senso che rimane libera la presenza di Dio nella creazione e libero è questo essere assunto da Dio. La creazione è, ripeto, in Cristo Gesù! Queste parole che vi ho detto ci dicono che cos'è il nostro paradiso, ma ci dicono anche quello che è la nostra vita quaggiù.
Che cos'è il paradiso?
Il paradiso è Dio stesso. Nessun altra cosa da Dio, perché noi siamo soltanto per vederlo, noi siamo soltanto come condizione alla sua presenza. Se io non fossi, non potrei vederlo, né potrei vivere la presenza di Dio. Ma io non vivo più me stesso, io non posso separare più nulla da me: io non sono che condizione al moltiplicarsi della presenza divina, della beatitudine divina, della gioia infinita di Dio. Non sono che condizione a questo moltiplicarsi di Dio attraverso ogni persona umana. Dio rimane unico e in qualche modo si moltiplica, nel senso che, in Cristo, anche le persone create ora posseggono ma, in questo caso, esse posseggono gratuitamente e non in modo necessario come è invece per le persone divine. Ma che cosa ricevono le creature in questo possesso? Tutta l'immensa felicità divina, tutta l'eternità divina, tutta la gloria divina, tutta la pace e l'amore di Dio! Come ogni persona divina è Dio, così ogni persona creata, in forza dell'azione dello Spirito Santo, viene ad essere come la condizione di questa presenza, di questa gioia, di questa gloria, di questa pace che è Dio stesso.
Il primo effetto dello Spirito Santo nella creatura è questo: l'incarnazione del Verbo. Qualsiasi effetto che lo Spirito Santo produce in forza del dono che fa di Se stesso, è sempre in ordine all'incarnazione del Verbo. Ma l'incarnazione del Verbo è l'opera mirabile dell'amore infinito di Dio che realizza non solo più l'unità del Padre e del Figlio nello Spirito Santo, ma l'unità della creazione di Dio, l'unità del tempo con l'eternità in Cristo Gesù. La prima opera dunque dell'amore dello Spirito Santo in noi è questa unità. Io vivo in ogni istante l'eternità di Dio. Io vivo in ogni luogo in cui mi trovo la sua immensità.
Vivere in Cristo…
Il cristiano deve vivere in continuità il mistero dell'incarnazione. Noi siamo cristiani in quanto siamo nel Cristo, ma essere nel Cristo significa che per noi, è inseparabile la natura umana dalla divinità del Verbo, il tempo dell'uomo dall'eternità di Dio. È questo che giustifica la vita cristiana. Ogni atto del cristiano può meritarci il paradiso per questa inseparabilità del tuo essere creato da Dio stesso.
Se tu vivi in Cristo, Dio è unito a te; tu rimani uomo, ma Dio è inseparabile da te. Se tu sei cristiano, vivi la tua vita umana: fai da mangiare, spazzi la casa, lavori. Ma questi atti umani, piccoli o grandi che siano, sono in un'unità con l'eternità stessa dell'amore. Nel tuo atto vivi già un rapporto con l'eternità stessa di Dio. L'eternità non è aldilà del tuo atto; se fosse aldilà del tuo atto non sarebbe più eternità. L'eternità non è aldilà del tempo. L'eternità non è aldilà e non è al di qua, è la presenza. Non so se mi capite. Quando si parla, per esempio, della vita futura, si sbaglia; la vita futura non si vivrà, si vive la vita eterna. Eternità non è futuro e non è passato, è presenza pura. Noi viviamo la vita eterna. Lo dice proprio nostro Signore nel Quarto Vangelo che già possediamo la vita eterna (e lo dice anche san Giovanni nella Prima Lettera); la possediamo già ora. Se non la possediamo oggi, non possiamo possederla neanche domani.
… è già vivere l'eternità…
L'eternità è una, ma come fa ad essere una? Ecco il mistero dell'incarnazione. Nel Cristo il tuo atto non è separabile dalla presenza di Dio e perciò anche dall'eternità di Dio. Domani non c'è un'altra vita: tu non vivi che l'atto di oggi che è l'eternità. Per ciascuno di noi, l'eternità non è ancora sperimentabile, mentre è sperimentabile l'atto temporale. Domani vivrai la vita che vivi ora, non un'altra, ma la vivrai liberata dall'oscurità del senso, non più nella fede ma nella visione.
È questo che distingue la santità dei santi, perché altrimenti l'eternità sarebbe uguale per tutti mentre per noi non è uguale per tutti. Infatti, nei nostri atti, viviamo l'eternità secondo quello che abbiamo vissuto nel momento presente in unione con Dio. Non è un'altra vita che viviamo. Io vivo questo momento qui anche per tutta l'eternità, lo vivo nella misura che in questo momento sono unito a Dio che è carità. Ora vivo questa eternità nel mistero, la vivo nell'esperienza mia di uomo. Questo medesimo momento che io vivo è, dunque, per me, l'eternità, ma liberata da questo mistero che rappresenta per me l'eternità oggi, cioè nella misura che ho vissuto qui, parlando a voi, la mia unione con Dio. Questo mio atto apparirà in tutta la sua dimensione umana. Non soltanto apparirà a voi ma io stesso lo vivrò nella sua realtà di unione con Dio. Ora invece, io lo vivo soltanto nella fede: il mio atto cade nel segno di questa esperienza sensibile che mi nasconde l'eternità cui sono unito. Io, in realtà, vivo in questo istante l'atto dell'unione della mia vita con l'eternità stessa.
Ecco perché i santi sono diversi, perché diversa è la loro vita. L'eternità invece, è sempre la stessa. Dunque i santi vivono in rapporto con l'eternità attraverso l'atto che compiono, attraverso la dimensione di fede, di speranza, di amore che hanno nell'atto che vivono. Lo Spirito Santo non compie che un'unica opera: l'incarnazione del Verbo e nell'incarnazione del Verbo l'unità della creazione in Cristo Gesù, l'unità del tempo con l'eternità in Cristo Gesù. Noi in loro vediamo Cristo.
…e poter amare Dio e l'uomo!
Che cosa vuol dire per noi, allora, vivere in dipendenza dell'azione dello Spirito Santo il mistero della carità? L'esercizio della carità teologale vuol dire prendere sempre più coscienza di essere una sola cosa col Cristo, di essere nel Cristo e di vivere nel Cristo. Notatelo bene: io ho parlato di questo, perché si deve capire, fin da ora, che il nostro amore del prossimo e il nostro amore per Iddio suppone l'essere in Cristo. La prima cosa che lo Spirito Santo compie in ordine alla carità, è questo prolungamento del mistero dell'incarnazione di Dio, è questo dilatarsi del mistero dell'incarnazione divina mediante lo Spirito Santo. Il Verbo divino si incarna, ma l'incarnazione, da parte del Verbo di Dio, implica la discesa: invece, da parte della natura umana, implica l'assunzione. Egli discende sempre unito a Dio, si lega alla natura umana per implorare Dio Amore. Cristo Gesù si lega a questa natura umana e nello stesso tempo la natura umana si lega a Dio: e in quell'atto umano vive la presenza stessa dell'eternità.
Quando celebriamo la Messa facciamo presente l'atto del Cristo. Attraverso l'atto che compie la Chiesa, si fa presente l'unico atto in cui Cristo eternamente rimane. È un atto umano l'atto della sua morte: ma è anche l'atto di Dio, perché in questo atto Egli eternamente rimane. Nel suo atto di morte, che è il venir meno alla sua condizione terrestre, la natura umana sperimenta e vive l'eternità stessa di Dio. Egli è Dio e in questo atto Egli si fa presente.
È quello che avviene anche per noi nella misura che noi, mediante lo Spirito, viviamo l'incarnazione del Verbo. Infatti anche noi, tanto più viviamo il mistero di dipendenza dallo Spirito Santo, quanto più viviamo il mistero della morte e della resurrezione di Gesù.
Il nostro essere cristiani, non è altro che una partecipazione e un prolungamento dell'incarnazione del Verbo. La vita cristiana, altro non è che una partecipazione al mistero della morte e resurrezione del Cristo.
Che cos'è l'unità in Cristo operata dallo Spirito santo?
Allora lo Spirito Santo opera, prima di ogni altra cosa, l'unità in Cristo Gesù. Ma che cosa vuol dire l'unità in Cristo? Ecco un altro punto molto importante: vuol dire che lo Spirito Santo opera la nostra unità in Cristo. Per prima cosa, vuol dire che in noi si ripete il mistero stesso di Dio, che è Uno nella natura e trino nelle persone. Ed è lo Spirito Santo che opera questa l'unità, che poi si estende a tutta l'umanità, a tutta la creazione. tutto diviene un unico Cristo, un solo corpo e un solo Spirito.
Voi vedete la differenza che esiste tra quello che dice la liturgia sino alla consacrazione e quello che dice dopo la consacrazione, nelle preci eucaristiche. Fino alla consacrazione, si parla della Chiesa come popolo di Dio. Siamo popolo di Dio, sì, fintanto che si cammina, fintanto che non siamo assunti dal Cristo e trasformati perfettamente in Lui. Infatti, una volta che siamo stati trasformati perfettamente nel Cristo, che cosa diciamo? Ecco la seconda parte della liturgia, la prece eucaristica: essa dice che, per lo Spirito Santo, noi diveniamo, per la comunione al corpo e sangue di Cristo, un solo corpo: e un solo spirito. Che cosa opera lo Spirito Santo allora nella nostra unità col Cristo? Ci fa tutti un solo uomo, Cristo. Non solo tutta l'umanità diventa un solo uomo, ma tutta la creazione diviene un unico Cristo, il Cristo totale.
Tutta l'umanità ha vissuto e vive la fede nel Cristo venturo. Che cosa insegna la Chiesa a proposito della nostra vita dopo la morte e resurrezione del Cristo? La Chiesa dice che la vita di ogni cristiano è la partecipazione a quell'atto: ciò implica che il tempo che precedette la morte e la resurrezione di Cristo vive, in ordine a quell'atto, una morte e una resurrezione. Tutto il tempo che viene dopo la morte e la resurrezione di Cristo sino alla fine del mondo, non è altro che quell'atto: e tutta la storia appartiene a quell'atto. Egli non fa parte della storia; è tutta la storia che fa parte di quell'atto. La tua vita, se tu vivi, è soltanto una partecipazione a quell'atto; e così è per la vita di tutta l'Italia, se vive. Così è per la vita di tutta l'umanità, se vive: è una partecipazione a quell'atto. Al di fuori di quell'atto c'è il vuoto, c'è la morte, c'è la distruzione, c'è l'inferno; non esiste altro per la nostra vita.
Altrettanto per il Cristo totale: dal momento che la creazione è in ordine all'elevazione soprannaturale, tutte le cose "sono" nella misura che vengono assunte dal Verbo. Al termine, non rimane che il Cristo storico di sant'Agostino. Al di fuori del Cristo non c'è che l'inferno. L'unico Cristo è l'incarnazione del Verbo. Ecco l'opera dello Spirito Santo: è Cristo ed è Cristo nell'atto della sua morte e resurrezione.
La carità non può avere limiti e deve essere libera
È importantissimo capire come tutta la nostra vita cristiana non sia altro che una realizzazione, mediante la fede, di questa nostra unità in Cristo Gesù. Togliete il Cristo e tutto precipita nel vuoto, non esiste più nulla. Tutto questo vuol dire che siamo uno nella misura che viviamo l'amore di Dio, la carità. Se io, per esempio, rifiuto la mia carità anche verso un solo uomo, mi separo da Cristo. La separazione non la crea Cristo ma la fanno le persone; la fanno coloro che vogliono andare all'inferno. Dio non manda nessuno all'inferno, sono gli uomini che vogliono andare all'inferno. Non è Dio che condanna. Dio non può condannare.
Quante volte si sente dire che non si può accettare l'inferno, perché Dio è buono e perciò porta tutti in paradiso. È vero che Dio non condanna, è vero che Dio non separa, Dio è l'unità; ma è vero che Dio, avendoci fatti liberi, non toglie a noi la possibilità di rifiutare il suo amore. Pertanto chi va all'inferno ci va perché ci vuole andare, perché non vuole assolutamente accettare di essere amato.
La creazione non ha la libertà di consentire all'atto divino. Gli uomini invece non, possono essere assunti che in quanto essi medesimi lo vogliono. Dunque, la nostra assunzione nel Cristo, la nostra unità nel Cristo dipende dal consenso libero e pieno all'atto di Dio: volontà di libertà all'atto divino. Il nostro consenso all'atto divino che ci assume, è necessario; senza questo non siamo assunti, perché Dio rispetta la libertà che ci ha dato, perché l'amore deve essere libero. E deve esserlo non soltanto in Dio che ci ama, ma anche in noi nel lasciarci amare. Il matrimonio umano nasce da un duplice consenso: così è, anche in questo amore che realizza l'unità in Cristo. Tutto dipende dalla volontà divina che ci sceglie: e Dio ha scelto già tutta la creazione, perché tutta la creazione è voluta in ordine a Cristo. Egli ci ha scelto fin dall'eternità. Ma questa scelta e questa elezione non consuma l'unione fintanto che tu non consenti a Dio.
Quando l'arcangelo si presenta alla Vergine e le dice: "Concepirai un figlio e gli darai nome Gesù", tutto è sospeso al fiat di Maria. Finché Maria non dice di sì, non avviene nulla. Dio è onnipotente, ma non fa nulla senza il minimo consenso della creatura alla quale si rivolge.
Così anche lo Spirito Santo opera l'unità, ma questa unità la realizza attraverso il consenso umano. Se tu non consenti, vuol dire che tu precipiti nel vuoto, che tu precipiti nella solitudine dell'inferno. Non esiste per te né amore né vita: ecco l'inferno. Al contrario, nella misura che dici di sì, si compie per te l'unità nel Cristo.
Unità nella distinzione
Nell'unità del Cristo, la distinzione delle persone resta. Per questo noi siamo salvati, perché se lo Spirito Santo compisse soltanto l'unità del Cristo, per noi tutto finirebbe. Ma come l'unità in Dio, delle tre persone in una natura, lascia immutata la distinzione delle persone, così tutti noi siamo un unico Cristo ma in questa unità del Cristo io rimango come realmente sono. Perché se io non rimanessi, cesserebbe di essere l'amore. L'amore suppone la distinzione delle persone, proprio come in Dio.
L'amore è insieme unità e molteplicità di rapporto. L'unico Cristo è l'unità paradossale di Dio e delle creature, è l'unità paradossale del tempo e dell'eternità; ma in questa unità paradossale il Verbo divino mi ama e io lo amo, il Verbo divino ci ama e noi lo amiamo. Non solo, ma anche la molteplicità di persone fra di noi resta, perché il Padre non è rapporto soltanto con lo Spirito Santo ma anche col Figlio. E lo Spirito Santo non è soltanto rapporto col Padre e col Figlio: infatti, c'è un rapporto "verticale" di tutti noi col Verbo divino che ci assume. Noi non possiamo prescindere dal nostro rapporto col Cristo, altrimenti vorremmo l'inferno.
Noi siamo soltanto in rapporto col Cristo che può stabilire anche il rapporto fra noi. L'amore del prossimo non esiste, assolutamente non esiste, se noi non siamo in rapporto col Cristo. È nel Cristo che si fonda l'amore del prossimo. Non si può parlare dell'amore del prossimo prima della nostra unione con Cristo. È il nostro rapporto col Cristo che realizza l'unità di tutti noi in Lui e che è il fondamento del rapporto anche "orizzontale" di ogni persona umana con l'altra persona umana. Senza il nostro rapporto con Cristo esiste un amore ma che non è l'amore teologale, non è l'amore che ci salva. Una madre, non può salvare nemmeno il proprio figlio col solo amore di madre perché con esso, non può dare l'eternità. Ma la mamma salva i figli amandoli in Cristo Gesù, perché è nell'unità col Cristo che ciascuno di noi salva anche gli altri.
Di qui ne deriva quello che tante volte vi ho detto: la stupidità di tutti quelli che parlano dell'amore del prossimo senza fondare l'amore del prossimo nell'unità del Cristo. In Lui io trovo tutti gli altri. Come una madre non salva i suoi figli se non li ama in Cristo, così un figlio non salva i propri genitori se non li ama in Cristo Gesù. È soltanto l'amore in Cristo Gesù che li salva, perché in questo amore, tutti noi siamo già assunti in Cristo che è il solo Salvatore del mondo.
Amerai il prossimo tuo come te stesso
È una cosa importante questa. Prima di tutto dunque, si stabilisce l'unità di Dio: "Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo". Poi l'unità nel Cristo, che è l'unità di Dio e della creazione, del tempo e dell'eternità. In questa unità, c'è il rapporto del Cristo verso di me e di me col Cristo: ma c'è anche il rapporto orizzontale divino con tutti gli uomini perché Egli amava senza mettere nessuna riserva o condizione al suo amore. Il suo amore, una volta liberato dai condizionamenti della vita umana, ha potuto raggiungere tutti gli uomini e tutti gli uomini vengono salvati dal suo amore. Tutti gli uomini sono salvati dall'atto della sua croce. Non crediate che Gesù Cristo, morente sopra la croce, ci avesse tutti presenti come uomo; non avrebbe potuto farlo. Sarebbe mostruoso pensare che un uomo, con un atto umano, possa aver presenti a sé tutti gli uomini che erano vissuti e che sarebbero vissuti in tutti i tempi. Non sarebbe stato più uomo. La natura umana è impossibile che abbia questa presenza. Fintanto che Gesù è vissuto quaggiù, anche la sua vita umana era condizionata dalla sua natura; però, per il fatto che non poneva nessuna riserva o condizione al suo amore, una volta liberato dai condizionamenti terrestri, il suo amore si è riversato su di noi e ha raggiunto tutti personalmente. Io sono conosciuto da Lui, io sono amato da Lui: Egli mi chiama per nome. Ma è proprio questo ciò che opera lo Spirito Santo.
Scusate se sono stato difficile e lungo; però è importante notare questo, perché parlare dell'amore direttamente, senza parlare dell'opera dello Spirito Santo che è il prolungamento dell'Incarnazione, sarebbe stato parlare di cose che non hanno un fondamento. Poniamo allora questo fondamento e poi vediamo come lo Spirito Santo operi in noi e noi viviamo, in dipendenza dello Spirito, la carità vera, la carità verso gli uomini e verso Dio. E nella carità verso Dio, noi vedremo come, in dipendenza dello Spirito Santo, noi viviamo il nostro rapporto col Padre: l'amore puro verso Dio, la lode per Lui, la gioia divina che è trasformazione nostra in Dio stesso. Poi vedremo come vivremo invece in Cristo, mediante lo Spirito, questo amore per l'uomo, che fa sì che noi realizziamo la nostra unità, il rapporto vero con l'altro. Noi amiamo l'altro come noi stessi, perché siamo persone distinte, ma non possiamo separarci dal momento che siamo una sola cosa in Cristo. Dal momento che siamo una sola cosa, io non posso fare differenza fra me e gli altri; le persone sono distinte, ma l'amore rimane unico. Di qui ne deriva quello che dice il Vangelo: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Perché? Perché il prossimo tuo in qualche modo sei tu. Se sei uno in Cristo, il distruggere questa unità vuol dire distruggere noi stessi. Di qui l'universalità dell'amore, di qui anche la misura dell'amore: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Come te stesso e non di meno!
C'è certamente anche in noi il più e il meno, perché siamo imperfetti, perché non si vive in dipendenza dello Spirito. Se vivessimo in dipendenza dello Spirito, vivremmo quello che dice san Massimo il confessore: ameremmo tutti di uguale amore. Quale amore? Il massimo per ciascuno, perché per ciascuno l'anima vive il dono reale di sé. E un po' difficile l'amore per il prossimo, perché bisogna vedere qual è la natura di questo amore. Un certo amore naturale lo possiamo provare per tutti. Quelli che ci sono simpatici, quelli che sono bravi. Ma all'amore per cui amiamo tutti di quello stesso amore onde cui amiamo noi stessi, cioè un amore totale, si può giungere solo nella misura che ci si abbandona all'azione dello Spirito Santo.
Omelia
Tutta la storia è "gestazione" dell'unico Cristo
Poche parole della Seconda Lettura, ci fanno capire in che modo lo Spirito Santo opera in noi per l'esercizio e nell'esercizio della carità. Si è detto che, per opera dello Spirito Santo, si realizza l'Incarnazione del Verbo, mistero che non si è compiuto una volta per sempre ma che si prolunga e si dilata nello spazio e nel tempo. L'Incarnazione ha avuto inizio quando il Verbo di Dio ha tratto una natura umana dal seno della Vergine, ma non termina nella nascita di Gesù Bambino, perché si prolunga anche oggi nel tempo e nello spazio finché non avrà il suo compimento quando da tutta la storia umana e da tutta la creazione verrà, come frutto unico, il Cristo totale.
Tutta la storia non ha che un fine, che è la venuta del Cristo. Questi, nascerà come frutto di tutta la terra; tutta la creazione non ha che una sola fecondità, quella della generazione del Cristo. San Ruperto di Deutz, un monaco benedettino del secolo XI, il più grande dottore benedettino della Germania, ha visto tutta la storia umana come gestazione dell'unico Cristo. Non ha altro senso la storia del mondo, non ha altra ragione tutta la creazione che quella di questo parto divino: il Cristo.
L'opera dello Spirito è dunque l'Incarnazione del Verbo, una incarnazione che avrà il suo compimento quando tutta la creazione si travaserà nel Cristo totale, quando tutta la storia raggiungerà il suo fine nella presenza ultima del Cristo totale. In dipendenza da questo medesimo Spirito, noi, come la Vergine, siamo strumento di una incarnazione che continua e si dilata; in che modo? Nel vivere l'amore!
Amore materno e nuziale
Ma quale amore? Innanzitutto un amore di maternità, per il quale noi diamo al Cristo di vivere attraverso di noi. Ma anche un amore nuziale, per il quale viviamo un rapporto col Cristo, come Maria. Tutta l'umanità partecipa del mistero della Vergine che, in dipendenza dello Spirito, divenne la Madre e la Sposa del Verbo. Tutta la spiritualità cristiana nel tema della maternità divina e nel tema dell'unione nuziale, ha sempre visto espressa la dottrina della vita cristiana. La vita cristiana non può essere altro che una partecipazione alla maternità di Maria e all'unione nuziale della Vergine col Verbo divino, perché vi è un amore della madre per il figlio, e un amore della sposa verso lo sposo. E in questo duplice aspetto, che l'amore trova la sua espressione ultima e suprema.
Amore di maternità: nei figli si prolunga la stessa natura dei genitori; la madre dà al figlio la sua stessa natura. Però nei figli la natura si moltiplica: da una donna non nasce soltanto una persona diversa, ma un altro uomo, un'altra donna. Questo non avviene invece in Dio: il Padre genera il Verbo ma il Verbo e il Padre hanno una sola natura. Questo non avviene nemmeno nel mistero cristiano, perché in esso noi tutti partecipiamo alla maternità di Maria, ma il Cristo non è diverso da noi. Come il Verbo divino è generato dal Padre e rimane nel seno del Padre, così il Cristo in qualche modo è concepito da noi: noi riceviamo la Parola, egli vive di noi e rimane in noi. E tutta la mistica dell'Eckart, del beato Suso, di santa Brigida di Svezia, di san Francesco di Assisi negli Avvertimenti, e di san Paolo della Croce: è una mistica che si esprime nel tema di una divina maternità. La nascita del Logos, del Verbo, nel cuore dell'uomo, il suo crescere in noi fino all'età perfetta. Ecco il primo aspetto dell'amore.
Poi c'è quello nuziale. Il rapporto della sposa con lo sposo è amore come il rapporto della madre col figlio ma, mentre nel rapporto della madre col figlio si realizza l'unità della natura, nel rapporto della sposa con lo sposo si realizza invece il rapporto nuziale. Non ci sarebbe amore vero se la sposa non fosse distinta dallo sposo e se lo sposo non fosse distinto dalla sposa; non c'è possibilità di matrimonio se i due, sposo e sposa, non sono distinti. Mentre il figlio tende sempre di più ad essere una sola cosa con la madre, invece negli sposi l'unità si realizza nella distinzione assoluta delle persone, perché se cessasse di essere distinta la persona dell'uno dall'altra, cesserebbe anche l'amore. Si vuol raggiungere l'unità del corpo ma nella distinzione delle persone.
Unità nella distinzione
Questa è l'opera dello Spirito Santo nell'amore che Egli ci dona. Noi viviamo quest'amore in dipendenza dallo Spirito nella misura che viviamo l'unità col Cristo e in questa unità, la distinzione personale: io e Lui. Unità nella natura, un solo corpo; unità nella natura, un solo Spirito: distinzione nella persona, lo sposo e la sposa. Sì, ma il testo che abbiamo proclamato ora dall'altare ci dice che vi è diversità di manifestazione e a questa manifestazione di diversa funzione nell'unico corpo provvede lo Spirito Santo. Dobbiamo vedere allora come lo Spirito Santo realizzi, nell'unità del corpo, la diversità delle funzioni.
Nella meditazione precedente, lunga e difficile, alla fine si è detto che l'amore del prossimo suppone la nostra unità in Cristo, ma questa unità non si realizza che in quanto lo Spirito Santo medesimo dà, a ciascun membro del corpo, una funzione diversa. Non è un aggregato, ma una unità. Se prendo tante pietre e ne faccio un mucchio, vi è una certa unità, ma non è una unità organica; per fare l'unità organica bisogna che gli organi abbiano una funzione diversa: bisogna, ad esempio, che il naso non abbia la funzione della bocca e gli occhi non abbiano la funzione dei piedi. Tutto concorre all'unità, nella misura che tutti contribuiscono, in modo diverso, all'unità della vita. Altrettanto avviene nell'unico Corpo del Cristo: Io Spirito Santo ci fa una sola cosa tra noi e nello stesso tempo attribuisce a ciascuno funzioni diverse, con carismi propri. Non solo io sono prete e voi non lo siete ma ciascuno di voi ha il suo proprio carisma ed è questo che può rendere facile la carità. Se noi tutti infatti, non avessimo bisogno l'uno dell'altro, non avremmo nemmeno la possibilità di amare, perché si escluderebbe l'altro che è, invece, a noi complementare. E se non facciamo posto agli altri, distruggiamo anche noi stessi. Nell'unità del corpo bisogna amarci, perché non ci completiamo che in quanto sentiamo vicendevolmente bisogno l'uno dell'altro nell'unico Corpo del Cristo.
Ciascuno di noi è soltanto nella misura che serve i fratelli
Ci vuole il Papa: ma che cosa fa il Papa se non ha poi i fedeli ai quali insegna? Chi dirige, se non vi è un popolo che gli obbedisce? Ma lasciamo da parte il Papa che è il capo. Anche il Vescovo, da solo, non fa nulla: ha bisogno dell'intelligenza dei teologi, ha bisogno della capacità organizzativa di alcuni altri preti, avrà bisogno poi del servizio di altri preti perché da solo non può far tutto, anzi non fa nulla senza gli altri, né i sacerdoti fanno nulla senza il Vescovo. Questo vale per il presbiterio ma anche, in modo più esteso, per tutta la Chiesa e per tutta l'umanità. ciascuno di noi è soltanto nella misura che serve. L'essere nostro, proprio in quanto facciamo parte di un unico organismo, è in ordine a una funzione. Nella misura dunque che serviamo all'unità e all'unica vita del corpo, noi stessi ci realizziamo. Non potremmo realizzarci che in quanto ci mettiamo a servizio, che in quanto viviamo una nostra funzione.
Questo è vero anche nella nostra Comunità e in tutte le comunità in genere, ciascuna delle quali è una piccola chiesa. È importantissimo che ciascuno abbia la propria funzione, che nessuno svolga la funzione di un altro, che nessuno voglia prevalere sull'altro. Ad ogni singolo membro è assegnata la funzione sua propria e ognuno ha bisogno dell'altro a causa di questa unità della vita. Di qui ne deriva che tutti allo stesso tempo siamo, nel medesimo corpo, passivi ed attivi. Passivi, perché dobbiamo accettare la funzione degli altri che limita la nostra autonomia; attivi, perché dobbiamo svolgere l'attività che ci è propria. E guai se non vi è una funzione che doni a ciascuno di essere attivo nella società, nella Comunità, perché altrimenti un membro, un organo a cui non si chiede nulla si atrofizza, non vive. Questo avviene anche nell'organismo umano: certi organi si atrofizzano proprio perché non hanno la possibilità di esercitarsi. Così è di ogni uomo e di ogni membro della Comunità che nella Comunità non svolga una sua attività. Bisogna che ciascuno abbia da fare qualcosa, bisogna che la Comunità a tutti chieda qualcosa: bisogna che tutti si sentano impegnati, nello stesso tempo, ad accettare gli altri e ad operare. Vi è una funzione duplice in ciascuno di noi: la passività nell'accettare gli altri e l'attività nello svolgere ciascuno la propria funzione, nel vivere ciascuno il proprio servizio.
Ognuno è chiamato a svolgere un servizio
È estrema sapienza da parte dei superiori il saper riconoscere a ciascuno i propri carismi per poterli usare a beneficio di tutti. Nessuno deve essere emarginato ma, anche, nessuno deve prevaricare cercando di assumere i compiti che possono essere di altri. Il piede deve fare da piede, non può svolgere la funzione del naso e dell'occhio; sarebbe stolto se l'orecchio volesse fare la funzione della bocca. Questo è vero per ogni organismo: è così per tutta l'umanità, per la Chiesa. È così, anche, per la nostra Comunità. C'è poi una funzione passiva e una funzione attiva nell'amore: poiché siamo amati dobbiamo accettare i carismi degli altri, non dobbiamo essere invidiosi o gelosi di alcuno; ciascuno ha la sua funzione e noi dobbiamo accettarla. Ma dobbiamo anche svolgere la nostra funzione: sarà la funzione di preghiera, sarà una funzione di studio, sarà una funzione di organizzazione, sarà una funzione di direzione: sarà quella funzione che il Signore vorrà e che il Signore farà capire a chi di dovere, perché ciascuno viva nella Comunità e nella Comunità raggiunga la perfezione stessa dell'amore.
È soltanto rispettando la funzione propria di ciascuno e ciascuno rispettando la funzione dell'altro che la Comunità può vivere. Ed è soltanto così che può vivere anche la comunità umana. Sul piano puramente naturale l'umanità si regge e vive solo se ciascuno ha la propria funzione. Che lo Spirito Santo faccia davvero vivere la Comunità in questo vicendevole servizio, in questo vicendevole amore!
Seconda meditazione
Lo Spirito Santo è spirito di verità
Ho detto alcune cose ma molto frammentarie sul rapporto che vi è fra lo Spirito Santo e l'esercizio delle virtù teologali. Si è detto che lo Spirito Santo è spirito di verità e ci introduce in tutta la verità, e si è detto in che modo dobbiamo intendere questo termine di verità: è lo Spirito che ci introduce nella realtà ultima. Dio è la verità sussistente: lo Spirito Santo ci introduce in un rapporto reale, concreto, con un Dio personale, in tal modo che noi abbiamo la percezione della realtà di Dio, viviamo nel sentimento di Dio e la realtà divina si impone sempre di più al nostro spirito, in tal modo che Dio diviene l'unica realtà nella quale viviamo.
Abbiamo detto che è lo Spirito Santo che ci dà il sensus Christi e ci fa conoscere per un senso intimo qual è la verità nei confronti dell'errore. Egli poi, dona alla Chiesa docente di insegnare infallibilmente quello che Dio ci ha rivelato e dona a noi una infallibilità non attiva ma passiva, per la quale anche noi possiamo rigettare l'errore. Nella misura che viviamo in unione con lo Spirito Santo abbiamo come il senso della verità, il gusto della verità. D'altra parte non varrebbe a nulla, dice sant'Agostino, l'infallibilità docente della Chiesa, se non vi fosse lo Spirito Santo che insegna interiormente al cristiano. La garanzia della verità nella Chiesa nasce proprio da questo incontro di un magistero esteriore, costituito dai vescovi col Papa, con il magistero interiore dello Spirito che dispone l'anima ad accettare queste verità, perché le riconosce come verità che appartengono a quella fede che lo Spirito Santo ci dona.
Lo Spirito Santo è spirito di speranza
Poi abbiamo detto che lo Spirito Santo alimenta e sostiene la nostra speranza. Come dice Simeone il nuovo teologo, lo Spirito Santo è in noi, il nostro medesimo desiderio che non è né sterile né inefficace. Nella presenza dello Spirito Santo in noi, il desiderio dell'essere creato, che è desiderio di Dio, che è aspirazione a Dio come fine supremo, diviene anche forza che ci solleva verso il Signore. Il desiderio, da solo, potrebbe essere per noi soltanto motivo di pena e di tormento, dal momento che noi non abbiamo la possibilità di realizzare quello che desideriamo. Invece, mediante la presenza dello Spirito in noi, il desiderio naturale che ha l'uomo di Dio, diviene speranza certa di poterlo conseguire. E questa speranza, in dipendenza dello Spirito Santo, è l'anima stessa della nostra preghiera. La preghiera cristiana è l'esercizio di una speranza viva, alimentata e sorretta dallo Spirito Santo.
Lo Spirito Santo è spirito d'amore
Poi abbiamo detto che lo Spirito Santo ci fa vivere anche la legge dell'amore. E abbiamo detto il perché di tutto questo anzi: ci siamo domandati che cos'era l'amore e ci siamo detti che non possiamo dare una definizione dell'amore se non mantenendo fermo quello che ci dice la rivelazione, cioè che Dio è amore, che Dio è carità. Se allora vogliamo sapere che cos'è l'amore, vediamo chi è Dio, che cosa di Dio ci dice attraverso la rivelazione.
Abbiamo visto che Dio è uno e trino, abbiamo riconosciuto di qui che l'amore stesso deve essere unità e molteplicità di rapporto. Abbiamo detto che lo Spirito Santo deve realizzare questa unità e anche questi rapporti. Di fatto lo Spirito Santo realizza questa unità: tutti noi mediante lo Spirito diveniamo un solo Cristo, l'unità di un solo corpo, l'unità di un solo spirito, l'unità di una sola vita. Però, nell'unità del Cristo, noi viviamo il mistero cristiano in un rapporto con Lui, che si compie in un mistero di alleanza, un'alleanza nuziale, la sposa e lo sposo. Questo è il termine ultimo della vita cristiana: lo sposo è il Figlio di Dio e la sposa è ciascuna persona creata. Così che il Cantico dei Cantici, che prima di tutto dice il rapporto del Cristo con la Chiesa e della Chiesa col Cristo, diviene anche il canto nuziale che descrive la vita interiore di ogni anima che viva in un rapporto di amore con Lui.
Lo Spirito Santo ci unisce a Dio e con gli uomini
Unità dunque e distinzione di persone. Ma non basta; s'è detto anche che in Dio l'amore non è soltanto un rapporto a due, il Padre col Figlio e il Figlio col Padre, perché anche in questo caso l'amore avrebbe qualche cosa di egoistico, sarebbe un amore troppo esclusivo, un amore che chiuderebbe l'uno nell'altro. In Dio il rapporto è triplice: Padre Figlio e Spirito Santo. Abbiamo detto anche che se lo Spirito Santo realizza in noi un mistero di amore, questo mistero di amore non realizza soltanto la nostra unità in Cristo, un solo Cristo, non realizza soltanto il rapporto della sposa con lo sposo, l'anima e il Cristo, ma realizza anche, in Cristo, il rapporto con tutti i fratelli. Di questo ho parlato nell'omelia della santa Messa e abbiamo detto come dobbiamo vivere questo amore.
Ma dobbiamo anche esser coscienti che l'amore che realizza lo Spirito Santo non compie soltanto l'unità di tutti gli uomini in Cristo ma, in Cristo, anche l'unità di tutti gli uomini con Dio. Perché se in Cristo tutta l'umanità è un solo uomo, quest'uomo partecipa anche del rapporto essenziale del Figlio Unigenito al Padre. Mediante la nostra inserzione nel Cristo, per il mistero della nostra unione con Lui, noi entriamo nella vita trinitaria. Non viviamo soltanto un amore che ci unisce fra noi, un amore che realizza la nostra unione nuziale con Cristo Gesù, ma viviamo in Cristo anche un rapporto col Padre.
Tutto quello che abbiamo detto insegna che il nostro rapporto col Cristo è possibile in quanto lo Spirito Santo entra in rapporto con noi e noi entriamo in un rapporto di docilità dallo Spirito. Se dunque viviamo un rapporto con la terza persona della Santissima Trinità, la Santissima Trinità vive un rapporto con noi e attraverso questo rapporto diveniamo un solo Cristo perché è evidente, che le persone divine sono inseparabili. Non possiamo avere un rapporto col Figlio e non averlo col Padre; non possiamo avere un rapporto con lo Spirito Santo e non averlo col Figlio e col Padre. Ne viene di qui che in Cristo Gesù noi viviamo un rapporto col Padre ed è in questo rapporto che l'uomo vive la realizzazione suprema della sua vocazione divina. Dio si comunica al mondo, si comunica a ciascuno di noi nello Spirito Santo e, per il Figlio, il mondo e ciascuno di noi sale al Padre.
Voi vedete dunque da questo schema come il Padre è il termine ultimo di tutto: Egli è l'Archè anche nella divina Trinità, il principio assoluto di tutta la vita divina. Non che il Figlio e lo Spirito Santo siano meno del Padre, però il Padre ha un primato di origine perché il Figlio e lo Spirito Santo procedono dal Padre, il Figlio direttamente e soltanto dal Padre, lo Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Dal Padre procede come origine prima la divinità del Figlio e dello Spirito Santo, ma anche tutta la vita umana. Il Padre è il primo principio e l'ultimo termine di ogni vita soprannaturale.
La nostra unione col Verbo di Dio che si è fatto uomo
Ma che cosa vuol dire per noi vivere, nello Spirito Santo, questo rapporto col Padre? Il rapporto col Cristo poteva anche spiegarsi come rapporto col Verbo di Dio, in quanto era uomo: infatti il nostro rapporto col Cristo, per quanto Egli sia Figlio di Dio, si realizza in quanto il Verbo ha assunto la natura umana. Il nostro rapporto col Cristo è un rapporto che ci fa un solo uomo con Lui; non un solo Dio, ma un solo uomo con Lui. Lo dice san Paolo nella Lettera ai Galati: "Non vi è più fra voi né schiavo, né libero, né uomo né donna, né Greco né barbaro, ma un solo uomo". Un solo uomo! Dunque l'unità non è nella divinità, ma nell'umanità di Cristo. Se in questa unità vediamo un rapporto nuziale, che suppone la distinzione delle Persone, allora anche l'unione nuziale col Cristo può avvenire in quanto il Verbo di Dio si è fatto uomo. Ed è questo che ci vuole insegnare il Vangelo, quando vede nella Resurrezione il compimento dell'unione nuziale, cioè dell'alleanza a cui è ordinata tutta la storia sacra. Avete presente la prima apparizione di Gesù nel quarto Vangelo: Gesù appare a Maria Maddalena. Questa pagina del Vangelo vuoi significare proprio l'unione nuziale che si realizzerà per Maria Maddalena con il Cristo. Maria Maddalena è il tipo della sposa e questa unione nuziale si realizzerà una volta che Egli è asceso al Padre: "Non mi trattenere, dice, perché ancora non sono asceso al Padre mio, e Padre vostro, al Dio mio e Dio vostro, ma va' e annuncialo ai discepoli". L'unione nuziale si realizzerà pienamente solo nel cielo, quando il Verbo di Dio nella sua natura umana sarà asceso al cielo e anche Maria Maddalena sarà in cielo. Però quella unione nuziale si realizza proprio col Cristo risorto. Ma non si sposa la natura, si sposa una persona.
Com'è possibile il nostro rapporto con le persone della Trinità?
Quando si parla del nostro rapporto col Padre bisogna tenere presente che il nostro rapporto non può essere con una natura umana, con un uomo sia pure Dio, con la natura umana assunta dal Verbo; il rapporto è direttamente con Dio. Questo vuoi dire che ora noi, non viviamo più una vita puramente umana, ma una vita divina.
Quello che abbiamo detto, si potrebbe anche comprendere come una trasfigurazione della nostra vita naturale umana, certo sublimata al massimo, vissuta con tale larghezza e dilatazione dell'essere e con tale pienezza che, umanamente parlando, noi non potremmo nemmeno sognare. Però rimane un rapporto come quello che abbiamo fra di noi. E evidente che il rapporto che abbiamo col Cristo è reso possibile in quanto Egli si è fatto uomo ed è nella natura umana che prima di tutto noi lo raggiungiamo, come dice san Giovanni nella Prima Lettera: "Quello che era dal principio noi vi annunziamo". Che cosa? "Quello che i nostri occhi hanno veduto, quello che i nostri orecchi hanno ascoltato, quello che le nostre mani hanno toccato: il Verbo della vita, questo noi vi annunciamo". Tutto questo implica un'esperienza umana. Certo che il rapporto termina in una persona divina, ma è reso possibile dalla natura umana assunta. In questo essere una sola cosa col Cristo Signore, noi viviamo ora quello che vive la persona stessa del Verbo.
Che cos'è ogni persona divina nella Santissima Trinità? È puro rapporto. Una definizione di ogni persona divina nella Trinità si esprime così nella teologia: "Relatio subsistens", relazione sussistente. È rapporto sussistente, non è altro; ogni persona divina, in sé e per sé, è tutta relazione all'altra persona: il Padre, per quello che è, è soltanto Padre; è Dio come il Figlio che si identifica al Padre ma in quanto si distingue dal Figlio è soltanto Padre. Il Figlio in quanto è Dio si identifica al Padre, è uno col Padre, ma in quanto è Figlio è soltanto relazione col Padre.
Se noi diveniamo un solo Cristo, come sussiste la persona del Verbo nella natura divina e nella natura umana assunta? Che cosa avviene? Che questa natura, in cui noi siamo una sola cosa con Cristo, è puro rapporto al Padre. Noi viviamo la stessa vita di Dio: non la natura di Dio nel suo principio, ma la vita di Dio nella persona del Verbo. Noi viviamo cioè una partecipazione al rapporto che il Figlio unigenito ha col Padre celeste. Ecco perché siamo figli nel Figlio, ecco perché tutta la vita cristiana non è che il vivere la nostra adozione filiale. Più che parlarci di carità fraterna, più che parlarci del nostro amore nuziale col Verbo divino, tutta la Sacra Scrittura ci presenta al termine ultimo della vita cristiana la nostra adozione filiale.
E che rapporto in particolare con Dio Padre?
È questo lo specifico della Comunità. Noi non escludiamo minimamente né il nostro rapporto nuziale col Cristo né la carità fraterna che ci unisce fra noi, ma sia la carità fraterna che l'unione nuziale col Cristo sono in ordine al vivere questa adozione filiale. Che vuol dire vivere l'adozione filiale? Per capire che cosa voglia dire per noi vivere l'amore stesso del Figlio unigenito per il Padre, noi dobbiamo capire che cosa è questo rapporto del Figlio al Padre e del Padre col Figlio.
Il Padre, s'è detto prima, è pura relazione di amore; puro dono di Sé a colui che è il Figlio. Il dono di Dio suppone noi stessi come condizione, perché si dona a noi. Invece, nei riguardi del Figlio non è così; il Figlio è nel fatto che il Padre lo genera, nel fatto che il Padre si travasa, si versa, si dà: è nel dono stesso del Padre che il Figlio è costituito. Nulla precede nel Figlio al dono del Padre. Dio si dona totalmente e si realizza totalmente come Padre nella generazione del Verbo, ma appunto la generazione del Verbo suppone il dono totale che Dio fa di Se stesso. Se Egli è Padre nei miei confronti, per me vivere l'amore del Padre vuol dire ricevere tutto Dio: sono uno col Figlio nell'unità della natura umana assunta dal Figlio unigenito. lo debbo vivere costantemente questa apertura totale, onde Dio in Ogni istante eternamente si dona a me: in ogni istante debbo ricevere Dio nella sua infinità.
Vedete come siamo piccini? Spesso chiediamo a Dio soltanto il paradiso ma così lo offendiamo! Quando chiediamo qualche cosa, quando chiediamo la salute o la ricchezza oppure altro, noi facciamo un'offesa al Signore, un'offesa grossa. Noi dobbiamo in ogni istante accogliere l'infinito, nulla di meno. Dio si dona tutto; siamo noi che misuriamo il dono di Dio col nostro desiderio, soprattutto con la nostra mancanza di fede. Il Padre è Padre e perciò stesso Egli si dona tutto a me: non è Padre che in quanto totalmente si dona, perché Egli realizza Se stesso in quanto io sono uno col Figlio suo, che in quanto Egli si dona a me.
Che cosa dice il Vangelo a proposito di questo rapporto del Padre cogli uomini e degli uomini col Padre? Notatelo bene, il Quarto Vangelo non dice che noi amiamo il Padre, ma dice una parola che per me è forse la più alta del Vangelo: "Ipse Pater amat vos", "Il Padre stesso vi ama". Ma come fa ad amarmi se non può donarsi che al Figlio ed ha un solo Figlio? Vuol dire che, in Cristo, ciascuno di noi è quell'unico figlio e deve ricevere tutto il Padre.
La nostra fede è misura al dono di Dio
Ne consegue che, in atto primo, non c'è limite alla nostra santità. Siamo noi che mettiamo una misura all'amore infinito del Padre, perché la nostra fede non è adeguata al dono divino. Ma Dio si dona tutto a noi. Tutta la vita è come l'eternità, è l'atto di generazione del Figlio dal Padre. Perché il Padre non lo genera quasi che il suo fosse tale da poter continuare nel tempo, e possa ricevere una sua perfezione domani. Egli lo ha generato e lo genera continuamente: non nel senso che questo atto sia un atto continuo; è un atto eterno ma che dura.
La generazione dunque del Figlio dal Padre, ha la dimensione stessa dell'eternità; ma siccome noi viviamo nel tempo, dobbiamo far sì che, per quanto ci è possibile, ogni istante del nostro tempo, ogni momento della nostra vita non sia che questo atto onde l'anima si apre ad accogliere l'abisso infinito di Dio.
Che cosa è l'uomo in sé e per sé? E nulla: egli "ha" e non "è", si diceva prima.
Non si può dire mai che l'uomo "è"; di Dio soltanto si può dire che "è". Noi "abbiamo"; l'essere stesso lo abbiamo, perché c'è stato dato da Dio stesso. Allora che cosa siamo? Nulla, un nulla che si apre ad accogliere Dio. Viviamo per accogliere l'infinito. Tutti i maestri di spirito dicono che l'umiltà è la condizione per accogliere l'infinito; ma non saremo mai abbastanza umili, perché dovremmo essere il nulla. Fintanto che non abbiamo realizzato il nostro nulla radicale, come possiamo essere proporzionati al dono divino che è il tutto infinito? Soltanto il nulla è proporzionato al tutto come dice San Giovanni della Croce: "nada, Todo". Tu devi essere nada, un abisso che si apre ad accogliere Dio, che è Todo.
Ecco che cosa significa vivere l'amore in dipendenza dallo Spirito Santo. L'amore in te, nei riguardi di Dio, non può essere mai primo, è sempre secondo; cioè tu prima devi essere amato e poi amerai. Per questo la prima cosa che devi fare è di volere essere amato. E anche più bello, perché in fondo possiamo amare così poco e invece siamo amati infinitamente! Ciascuno di noi è in Cristo e siamo una sola cosa con Lui, un solo corpo, un essere solo. Noi dobbiamo realizzare il nulla radicale della creatura per poterci aprire, in una fede assoluta, ad accogliere Dio. Egli poi a noi si comunica totalmente cioè infinitamente, perché Dio è indivisibile, è semplice: non può dividersi, non può darsi per parte poiché Egli è infinito. L'unica proporzione che vi è fra questo tutto e la creatura è che la creatura realizzi, nell'umiltà, il proprio nulla.
Ci riusciamo? No ma dobbiamo, per quanto ci è possibile, cercare di tendere a questo. Non ci riusciamo anche perché siamo peccatori. Il peccato dovrebbe essere una esigenza di maggiore umiltà, perché ci siamo opposti alla volontà divina; invece proprio il peccato rende impossibile l'umiltà vera, perché il primo effetto del peccato è quello di crederci qualche cosa, di avere una certa autosufficienza, di credere di poter fare qualche cosa senza Dio.
Guardiamo a Maria per imparare a vivere nello Spirito
Chi ha potuto vivere fino in fondo l'umiltà è la Madre di Dio, è la Vergine. Nel mio libretto la "Lotta con l'Angelo", a proposito della Madonna, parlo del turbamento della Vergine quando le viene recato dall'angelo l'annunzio. Da che cosa nasce questo turbamento? Ella non poteva turbarsi né provare sgomento per la presenza del soprannaturale, viveva totalmente in Dio. Lo sgomento di Maria, questo senso di timore che prova, nasce dal fatto che si sente chiamata per nome. Ella emerge come dà un abisso, non si era mai conosciuta, non aveva conosciuto che Dio.
Se i santi arrivano a vivere una dimenticanza totale di se stessi da non ricordarsi nemmeno di essere, lo dice di se stessa santa Teresa di Gesù, figuriamoci la Madonna! La Madonna vive in un tale oblio di se stessa da non sapere più nulla di sé: Dio solo! C'è un angelo mandato da Dio e la chiama per nome: essa allora emerge come dall'abisso del nulla.
E questa la vera umiltà, umiltà che implica il sentimento del proprio nulla. Invece molto spesso chi pensa di essere umile, è soltanto orgoglioso. Le espressioni come: "Sento di essere una grande peccatrice, di essere colpevole di tutti peccati del mondo", sono manifestazioni di un orgoglio segreto. Perché pretendi di essere la più grande peccatrice? Accontentati di essere nulla, perché anche essere una grande peccatrice vuol dire essere comunque grande in qualcosa. Dobbiamo saperci dimenticare; la dimenticanza di sé è molto più che dirsi colpevole di tutto. Dimenticati e basta: tu devi sparire! Il nulla soltanto accoglie Dio. Se tu sei grande come peccatrice, come fai ad entrare in Dio? Sei troppo grande perché Dio possa essere qualche cosa per te; sappi dimenticarti! Anche nell'umiltà siamo orgogliosi. L'umiltà è la condizione dell'amore, perché l'abisso che è proporzionato all'amore di Dio è il nulla. "Nada, Todo".
Come deve essere il nostro amore per Dio
"Ipse Pater amat vos". Prima di tutto l'amore di Dio; all'amore di Dio risponde poi l'amore dell'anima. Che cos'è l'amore dell'anima? Per capire questo, dobbiamo ritornare al fatto che il Padre non può aver rapporto con noi né noi con il Padre se non in quanto siamo un unico figlio in Cristo. Come dice uno dei più grandi teologi del secolo passato, noi siamo figli nel Figlio, siamo un solo figlio nel Figlio Unigenito. Allora come possiamo amare il Padre?
Dobbiamo renderci conto di cosa sia l'amore del Figlio nei riguardi del Padre. Il Padre possiede se stesso solo nel Figlio, non possiede altro; il Figlio totalmente al Padre si dona e nel Figlio perciò il Padre trova ogni sua compiacenza. Il Padre si conosce soltanto nel Figlio, il Padre si possiede solo nel Figlio. Il Padre ha la sua gloria, la sua beatitudine, ha tutto nel Figlio.
Che cosa allora riceve Dio da te, che non sia la sua beatitudine, la sua lode? Se riceve altro, allora tu non ami Dio; noi amiamo Dio nella misura che diveniamo la sua lode. Tutta la spiritualità della Compagnia di Gesù si esprime nelle parole di sant'Ignazio: "Ad maiorem Dei gloriam". Ma sant'Ignazio guarda sempre e soltanto le opere, e le opere non glorificano Dio; chi glorifica Dio è il Figlio Unigenito! La nostra spiritualità non guarda le opere, guarda il divenire noi la lode divina, come sé Dio non avesse altri che me, come se in me Egli possedesse Se stesso. Se io gli manco, è come se mancasse Se stesso a Dio, perché se al Padre manca il Figlio Egli non vive più, non è.
Questa è stata la mia esperienza: non che io la viva, ma è stata la mia esperienza più profonda, direi, fin da quando non ero ancora sacerdote. In una mia poesia scritta nel 1937, "La voce dell'abisso", dico che Dio vuol trovare in noi il suo cielo come se, mancandogli io, a Lui venisse a mancare di essere. Perché come il Padre non è che nel Figlio, così Dio vuoi essere in me quasi come se io portassi a Lui l'essere suo, come se per me Egli vivesse: infatti senza il Figlio, non sarebbe il Padre.
Tutto questo vuol dire che ciascuno di noi devi sentire la responsabilità di essere tutto per il Padre. Nessun affetto, nessun pensiero, ma una purezza assoluta di ogni nostro pensiero ed affetto, perché Dio deve trovare tutto se stesso in ciascuno di noi.
Essere immagine di Dio
Questo implica la realizzazione di quella che è la vocazione dell'uomo fin dalle origini: essere come l'immagine di Dio. Siamo stati creati secondo l'immagine; ora perché uno specchio rifletta bene il vostro volto, la vostra immagine, bisogna che lo specchio sia limpido e puro. Ciascuno di noi è questo specchio dinanzi al volto di Dio. Guai se lo specchio riflette qualche altra cosa! Devi essere totalmente puro da ogni immagine, da ogni pensiero, da ogni affetto per poter riflettere Dio. Purezza assoluta nella divina presenza; allora Dio si rispecchia in te.
Amare Dio vuol dire questo. Ecco perché Cassiano dice che secondo tutti i Padri del deserto la "puritas cordis" si identifica all'agape, cioè che la purezza del cuore si identifica all'amore, perché l'amore è Dio che si riflette in te. Nella misura che nella tua purezza ti poni davanti al volto del Padre, l'essere tuo non è più che il suo riflesso, la sua immagine: Egli si contempla in te. L'amore è rispondere a questa esigenza, essere tutto per Lui, quasi che in me Egli trovasse ogni cosa.
Si deve fare in modo che il Padre sia, ma non può essere il Padre se io non sono figlio; il Padre è per me nella misura che io sono figlio. Debbo essere il Figlio unigenito, perché Egli sia il Padre in senso assoluto; se no, io sottraggo qualche cosa a Dio, è come se Dio non fosse più Dio.
Certo, Dio è anche se io non sono il figlio, perché c'è il Figlio Unigenito; ma la mia vocazione è di essere uno col Figlio ed è per questo che io non posso volere una santità che sia minore di quella di Dio. Ecco perché le parole più grandi del Vangelo ci dicono che cosa il Signore esige da noi: "Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli"; ed è il motto della Comunità: "Ut sitis fìlii Patris vostri", "perché siate figli del Padre vostro". Allora noi dobbiamo essere figli nel Figlio!
U.S.F.P.V.

Don Divo risponde ad alcune domande
Prima di finire però vorrei rispondere ad una vostra domanda che mi sembra molto importante ed è questa: "Ma se Dio è infinito e non lo si raggiunge mai, allora anche la vita di speranza è una vita che ci delude?" Ed ecco la risposta: sul piano di una perfezione di condotta evidentemente tu non raggiungi mai Dio, ma nella misura che tu vivi l'ansia di Dio, Dio stesso vive in te. Simeone il nuovo teologo, il più grande mistico dell'Oriente cristiano, ha detto dello Spirito Santo: "Tu sei il mio stesso desiderio". Nella misura che vive in noi quest'ansia di Dio, Dio già vive in noi ed è la parola che dice, che voi ricordate bene, che diviene la vostra vita.
Vi sarete domandati il perché la Chiesa ci ha fatto proclamare, nella Messa vespertina della Pentecoste, il testo dell'Esodo che narra la discesa di Dio sul monte Sinai e la prima alleanza di Dio con Israele. Che rapporto vi è fra la Pentecoste e questo avvenimento della storia di Israele? Noi dobbiamo aver presente la struttura dell'anno religioso, sia nelle religioni cosmiche, poi nella religione ebraica, e finalmente nella religione cristiana nel bacino del Mediterraneo. In esso, le principali feste delle religioni primitive, delle religioni anche prima della rivelazione profetica, come altre volte vi ho detto, sono tre: la prima festa il passaggio dall'inverno alla primavera è il passaggio dalla morte alla vita, tutta la natura risorge. Nella concezione religiosa antica si aveva questa idea, che cioè la creazione invecchia e muore e dunque ha bisogno sempre di un intervento divino che la rinnovi e la ravvivi. La creazione sembra morire, nell'inverno tutto si ferma, la vita sembra arrestarsi. Ma ecco, con l'equinozio di primavera, noi assistiamo di nuovo a un risveglio della natura; i fiumi congelati cominciano a scorrere, le piante gettano i loro germogli, la pioggia della primavera ridona fecondità a tutta la terra. Le religioni cosmiche celebravano questo entrare della vita. Alle religioni cosmiche subentra la religione profetica, la religione d'Israele e questa festa diviene allora la festa di una liberazione nazionale. Non più la vita biologica ma la vita sociale, la vita associata: una nazione che sorge, un nuovo popolo che nasce. Qual è il contenuto di questa festa? Il passaggio del Mar Rosso. Il popolo d'Israele passa il Mar Rosso e passando il Mar Rosso lascia la terra della schiavitù, l'Egitto, per andare verso la terra di Canaan dove avrebbe avuto l'indipendenza nazionale, la liberazione. Ma oltre questa festa della primavera, che diviene la Pasqua dell'Ebraismo, vi è un'altra festa nelle religioni cosmiche che è quella della mietitura. La vita non si mantiene senza mangiare e se non si mangia si muore. Allora c'è la necessità di festeggiare, oltre che il sorgere della vita, l'alimento che ci dà la possibilità di vivere. Qual è nel bacino Mediterraneo l'alimento base? Il pane, ed ecco allora che la seconda festa religiosa delle religioni primitive nel bacino Mediterraneo è la mietitura in giugno e viene circa due mesi dopo la primavera, nei mesi di aprile, maggio e giugno. Che cosa corrisponde nella religione profetica alla mietitura? Voi avete presente un testo fondamentale dell'Antico Testamento che ripete anche Gesù nelle tentazioni del deserto. Quando Egli ha fame, il demonio dice a Gesù: "Dì che queste pietre diventino pane" e Gesù risponde: "Non di solo pane vive l'uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio". L'uomo non vive soltanto una vita biologica, vive anche una vita razionale, vive anche una vita etica e per vivere una vita etica e intellettuale ha bisogno, sul piano dell'intelligenza, della fede e sul piano della volontà, della legge di Dio. Ora qual è la festa che subentra alla mietitura nelle religioni cosmiche? Il dono della legge che Israele riceve proprio ai piedi del Sinai. Mosè sale il Sinai, riceve il dono della legge e lo porta a Israele. E Israele, ricevendo la legge, che cosa diviene? Gli uomini erano semplicemente degli esseri che mangiavano il pane, come il cane che mangia quello che gli viene dato. In questo, la vita puramente biologica degli uomini non si distingue dalla vita dell'animale; ma l'uomo vive un'altra vita, una vita che implica la società ed è la legge che crea una società.
Chi ha fatto sì che noi potessimo dire di essere l'Italia? Il fatto che l'Italia si sia data una legge perché prima del 1870 non c'era l'Italia. C'era invece il Regno delle Due Sicilie, perché il Regno delle Due Sicilie aveva un codice. E la legge che fa una nazione, è nella legge che una nazione si riconosce, è nell'obbedienza alla legge che uno stato vive. E anche la nazione di Israele si crea col dono della legge di Dio. Si è detto che la prima festa che è la primavera si trasforma nella liberazione di un popolo dalla schiavitù, ma questo popolo diviene nazione quando riceve la legge da Dio ai piedi del Sinai. Ora nel cristianesimo alla primavera, all'Esodo, alla Pasqua, risponde la resurrezione dai morti.
Non è propria del cristianesimo la giustizia sociale, mi dispiace tanto per quelli che confondono il cristianesimo per il socialismo: il cristianesimo trascende infinitamente, ma infinitamente dico, ogni realizzazione sociale, perché al cristianesimo è promessa la vita di Dio, che è la vita eterna! E la nostra festa non è la costituzione di una nazione, sia pure nella giustizia, come volevano anche i profeti; al cristianesimo e data invece la resurrezione dai morti. La resurrezione dai morti è la gloria di Dio, che investe la natura dell'uomo e fa l'uomo partecipe della stessa vita divina. Non vita biologica, non vita puramente sociale, ma la vita stessa di Dio. Ecco la Pasqua! Ora, come la vita biologica si mantiene con l'alimento fisico, così la vita sociale si mantiene col rispetto della legge: l'etica e la vita divina.
Ecco che cosa ci insegna proprio il testo di stasera: la vita divina deve trascendere il dono della legge. Qual è la legge del cristiano? E lo Spirito Santo. San Tommaso d'Aquino nella Somma Teologica dice espressamente questo: "la legge del cristiano è lo Spirito Santo". Infatti si è detto anche in questi giorni che la vita divina non è soltanto l'amore, è anche la fede e la speranza. La vita divina è dominata e deriva dalla presenza dello Spirito Santo nel cuore dell'uomo. È lo Spirito che rende capace l'uomo di vita divina. E per questo che alla mietitura della Pentecoste ebraica, che celebrava il dono della legge, ora subentra la Pentecoste cristiana che celebra l'effusione dello Spirito Santo sopra gli apostoli, il dono dello Spirito Santo a ciascuno di noi.
Viviamo la presenza dello Spirito in noi. Viviamo come uomini in quanto mangiamo; viviamo come cittadini in quanto partecipiamo di una vita sociale, di una giustizia del mondo, in quanto obbediamo alla legge di Dio e alla legge anche di ogni nazione. Viviamo la vita divina superando l'alimento del pane e l'alimento dell'obbedienza alla legge, nella pura libertà dell'anima che si abbandona allo Spirito, che si lascia portare dallo Spirito.

* * *

"Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio,
costoro sono figli di Dio"

Ritiro di Firenze, 16 luglio 1961

Omelia
La Parola di Dio crea

"Fratelli, noi non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne. Se infatti vivrete secondo la carne, morrete; ma se mediante lo Spirito avrete ucciso le opere della carne, vivrete. Tutti quelli infatti che sono guidati dallo Spirito di Dio sono figli di Dio. Infatti, voi non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, ma lo spirito di adozione in figli, per il quale gridiamo: Abbà, Padre! E lo stesso Spirito rende testimonianza all'anima nostra che siamo figli di Dio; ma se figli, siamo pure eredi: eredi perciò di Dio, coeredi del Cristo" (Rm 8,12-17).
Tanto più son contento di dover meditare con voi questa pagina dell'Epistola di S. Paolo ai Romani, in quanto è la pagina che mi venne annunciata proprio il giorno della mia Ordinazione, il 18 luglio 1937. Il giorno non corrisponde, ma corrisponde la domenica. Ed è precisamente questa pagina che dice la mia e la vostra vocazione. In quel giorno che il Signore mi faceva suo Ministro, già mi preparava ad essere padre delle anime vostre. Così la mia vocazione conteneva la vostra; così la parola che il Signore diceva a me, lontanamente era anche per voi. È una parola, appunto, che ci dice quella che è la nostra vocazione; rivela il disegno di Dio su di noi. E non lo rivela soltanto, ma, come ogni parola divina, più che annuncio, più che richiamo e legge, è anche un impulso segreto, è anche una forza che ci solleva, è anche una potenza che ci crea. No, in questa parola noi non riceviamo soltanto l'indicazione di un cammino che dobbiamo percorrere, ma riceviamo anche la forza che ci muove, riceviamo anche la promessa di doni divini sempre più efficaci, perché quanto Dio ci ha detto un giorno si compia nella nostra povera vita.
Proprio per questo le parole di Dio non ci giudicano, ma ci salvano: perché se la Parola di Dio ci dovesse percuotere l'orecchio come una parola estranea, come una parola che noi non abbiamo accolto come seme nell'anima nostra perché in noi fruttifichi, questa stessa parola non sarebbe per noi altro che motivo di condanna e di morte. Ma non è così: se Dio ci parla, Egli dall'abisso della nostra anima anche ci solleva e ci crea; dal fondo del nostro essere Egli ci trae su, Egli realizza quanto dice. Per questo le parole che un giorno mi, diceva il Signore, ripetute oggi qui al suo altare, non sono per me un motivo di condanna, anche se sento bene quanta infinita distanza ancora io debbo percorrere per realizzare il volere divino: non sono una parola di condanna, sono una parola che rinnova la mia vocazione, che rinnova la promessa di Dio, per me e per voi, di un compimento divino: e di quale compimento divino!
Lasciarsi guidare dallo Spirito Santo
Non dovremo vivere più secondo la carne, ma secondo lo Spirito: ecco la prima cosa che il Signore ci dice. Bisogna che noi siamo organi totalmente sotto la dipendenza dell'azione dello Spirito, ciascuno di noi deve essere strumento dello Spirito Santo. Il primo dovere che si impone per noi è quello di affidarci all'azione di questo divino Spirito che ci investe; perché ogni chiamata divina implica precisamente un dono che Egli ci fa di Se stesso; perché ogni chiamata divina implica che Egli discenda in noi per realizzare quanto Egli ci chiede.
Non dobbiamo vivere secondo la carne. "Carne", qui, non dobbiamo intendere nel senso latino, greco e italiano, ma in senso semitico: "carne" è tutto l'uomo. Non dobbiamo vivere secondo l'uomo, non dobbiamo vivere più una vita umana; dobbiamo vivere secondo lo Spirito e lo Spirito, qui, non è lo spirito dell'uomo, ma è lo Spirito Santo. Dobbiamo vivere una vita tutta divina. Non dobbiamo più essere animati, guidati, sorretti, mossi dal nostro spirito umano, dagl'istinti della nostra natura: dobbiamo essere docili alla forza che viene dall'alto, dobbiamo abbandonarci alla potenza dello Spirito perché lo Spirito solo ci guidi, ci porti, ci trascini.
Solo in questo caso noi vivremo, perché la vita è il Signore. "lo sono la vita", Egli ha detto. E se lo Spirito Santo vivrà in noi, giustamente noi saremo Lui, il Figlio di Dio. Perché coloro che sono mossi dallo Spirito, ci dice Paolo, questi sono figli di Dio. Non vi è possibilità per noi di una unione con Cristo, di una partecipazione alla sua santità, di una partecipazione ai suoi misteri, non vi è possibilità per noi di vivere in Lui, se non nel possesso del suo Spirito. Per questo, l'allontanamento visibile di Gesù dal mondo è stata la glorificazione del Cristo ma è stata anche la glorificazione nostra. Ora non lo vediamo più il Signore, è vero, ma non lo vediamo più perché siamo Lui. Egli ci ha donato il suo Spirito e nel dono del suo Spirito ciascuno di noi non può esser più separato dalla carità del Cristo. Quis nos separabit a caritate Christi?. Chi potrà separarci dall'amore del Cristo? Noi siamo una sola cosa con Lui nel dono dello suo Spirito. Quello Spirito che lo animava è lo Spirito che ci anima. Il medesimo Spirito che conduceva il Cristo al Padre, ora conduce anche noi. In ciascuno di noi non vive più che lo Spirito di Gesù e noi tutti non siamo più che Lui, figli nel Figlio, non viviamo più che la sua vita di amore, oblazione pura al Padre, sacrificio per i fratelli.
Non siamo più servi
E perché abbiamo ricevuto lo Spirito? Da cosa noi possiamo riconoscere di aver ricevuto lo Spirito del Cristo? Nel passaggio dalla servitù allo spirito di adozione, a quei sentimenti di confidenza, di abbandono in Dio, di fiducia, di libertà interiore, di semplicità pura, che distinguono appunto il rapporto del figlio col padre. Non siamo più dei servi. Oh! Proprio queste parole danno una interpretazione meravigliosa, poi, del Vangelo, che sarebbe un pachino conturbante per me, non vi sembra? Il Signore mi chiama: "Rendi conto!". Oh, ma non fa più paura! Proprio l'Epistola di oggi toglie ogni carattere di timore alla lettura del Vangelo; perché fintanto che debbo render conto, sono un dipendente; ma io non sono più un dipendente di Dio, non sono più il suo fattore: io sono il figlio; posso giocare; posso dire precisamente a voi: "Quanto dovete? Ma fatela finita, non date più nulla!". Perché? Perché posso usare dei beni del Padre. La parresia, la confidenza, la fiducia! La semplicità nel rapporto! Questo distingue il figlio nei confronti del servo. Il Padre non chiede conto al figlio suo di quello che fa. Può chiederlo al servo, perché di fronte al servo Egli è il padrone. Di fronte al figlio il Padre altro rapporto non ha che quello dell'amore. E tutto quello che è del Padre è del figlio, e il figlio può liberamente usarne; può liberamente concederlo a chi vuole, perché altrimenti non lo possederebbe se non ne avesse un uso pieno.
E dice Gesù: "Ti sono rimessi i tuoi peccati". Quanto devi a tuo padre? Non te lo domando neppure. Che importa? Tutto è condonato, in un istante. Non è così, forse? Semplicità, purezza, fiducia. Se sono figlio non posso turbarmi. Mi chiede conto di qualche cosa? Non vi è altro rapporto del figlio col padre che quello dell'amore. E noi non abbiamo ricevuto più lo spirito del timore nella servitù, ma lo spirito dell'adozione in figli nella libertà, nella parresia, nella confidenza, nel puro amore. Onde tutta la nostra vita non è più che un esalarsi in un sospiro di carità: "Abbà, Padre!". Devo fare i conti? No! Devo soltanto cantare. Devo render conto dell'amministrazione? No! Debbo soltanto aprirmi al Padre, guardarlo, contemplarlo, donarmi a Lui. Devo soltanto vivere il rapporto del figlio col padre. "Abbà, Padre". Tutta la vita del Figlio non è che questa parola.
La nostra vocazione: ...
E giustamente lo Spirito rende testimonianza in noi che noi siamo figli, perché ogni timore è scomparso, perché ogni angustia del cuore è venuta meno. L'anima non vive che la pura libertà di un rapporto di amore. Dicevo: queste parole contengono la nostra vocazione e la rinnovano. Quale vocazione? Di vivere una vita tutta divina. E una vita divina noi la vivremo solo nella misura che ci strapperemo a noi stessi per affidarci allo Spirito, solo nella misura che non vorremo più vivere la nostra vita, ma lasceremo che Dio viva la sua attraverso di noi, solo nella misura che noi doneremo tutto l'essere nostro a un Altro, che deve avere su noi ogni dominio, che deve possederci interamente, far di noi ciò che vuole. Non obbedire più alla nostra volontà, non essere più nostri: deve guidarci lo Spirito di Dio. Non dobbiamo più amare Dio soltanto: deve essere Dio che ama attraverso di noi, Lui principio primo delle nostre operazioni. Mossi dallo Spirito in ogni cosa, in ogni istante, per ogni movimento e del cuore, e dell'anima, e di tutto l'essere nostro. Tutta la nostra vita non è che in questa docilità pronta, pura, all'azione di Dio. Noi non possiamo dubitare che Dio ci investa.
Ecco la grande novità, ecco il grande annuncio che ci dona l'Epistola. Se noi possiamo sottrarci alla carne per non morire, è perché lo Spirito prende possesso dell'anima nostra. Noi dobbiamo esser sicuri di questo fatto: che Dio ci vuol possedere, che Egli non ci chiede altro che di lasciarci possedere da Lui, Egli non chiede altro che di investirci pienamente e di portarci là dove Egli vuole. Non saremo, dunque, soli in noi, sterili, vuoti. Non dobbiamo temere la morte se noi ci rifiuteremo di obbedire agl'istinti della nostra natura: è proprio piuttosto nel morire a noi stessi che realmente vivremo, perché un Altro ci prenderà, un Altro ci possederà, un Altro farà di noi ciò che vuole, e sarà Dio, lo Spirito. Il grande annuncio è questo. Noi temiamo, abbiamo paura di donarci perché ci sembra che nessuno ci prenda. Eppure è nell'intimo di ogni creatura questa volontà di donarsi, di esser posseduta; anche nel piano stesso di natura, l'uomo non vive che nella misura che ama e nella misura che è amato e perciò posseduto da un'altra creatura. Ma il possesso di una creatura da parte di un'altra è sempre tanto relativo! Tutta la pena degli uomini è che nessuno li ami così pienamente come vorrebbero essere amati, che nessuno veramente così li possegga da non lasciar loro più nulla. Non possiamo esser posseduti mai, perché neppur siamo conosciuti dagli altri, rimaniamo chiusi in noi stessi, impenetrabili gli uni agli altri. Vogliamo amare e non sappiamo; vogliamo essere amati e non riusciamo mai ad essere posseduti pienamente da coloro che pur ci amano. Sentiamo che al limite estremo c'è sempre un'incomprensione che ci chiude, c'è sempre una impenetrabilità degli spiriti che rende impossibile il perfetto amore, il perfetto dono di noi stessi e il perfetto possesso da parte degli altri di quello che noi siamo. Ma non è così, non così nel nostro rapporto con Dio! Nella misura che ci sottrarremo a noi stessi, nella misura che ci doneremo a Dio, Egli ci possederà; e ci potrà posseder pienamente, e possedendoci Dio pienamente noi saremo liberati dalla morte, noi saremo finalmente liberati dal pericolo di rimaner chiusi in noi stessi in questa angustia che è la povera nostra natura.
... farci possedere da Dio...
Esser posseduti da Dio! Non è veramente questa la beatitudine, più che anche possedere Dio? Perché possedere Dio da parte nostra sarà sempre ben poco: abbiamo mani così limitate per accogliere il dono divino! Ma essere posseduti da Dio, che suprema felicità! E soprattutto potete capirlo voi donne, per le quali l'amore è più essere possedute che possedere. Ma di fronte a Dio ogni uomo è la sposa, la sposa che è posseduta pienamente dallo Sposo. Lasciatevi possedere da Dio. Dio altro non chiede che questo: che voi lo lasciate libero di possedervi; che voi lo lasciate pienamente libero di potervi investire, strappare a voi stessi, per farvi suoi. La prima verità, il primo grande annuncio è veramente questo. Noi, sul piano naturale ed umano non sappiamo mai se gli altri ci amano. Possiamo dubitarne, possiamo crederlo; possiamo anche sperarlo, ma l'amore degli altri non ci possiede mai pienamente e non sappiamo mai quanto sia puro, quanto sia vero e reale. Ma non possiamo dubitare di questo Spirito che ci vuol possedere.
Il primo annuncio è questo: Uno ci ama ed è Dio. Uno ci ama e ci vuol possedere veramente. Uno ci ama e vuole che la nostra natura sia in qualche modo come la natura che il Verbo assunse nel seno della Vergine: una natura attraverso la quale Egli vive, una natura che diviene l'organo, lo strumento stesso di Dio:Instrumentum coniunctum divinitati: così definisce la natura umana assunta dal Verbo, San Tommaso d'Aquino. Ognuno di noi deve essere questo strumento, ognuno di noi deve essere questo organo dello Spirito, ognuno di noi deve essere un'umanità che si aggiunge all'umanità che il Verbo assunse nel seno di Maria. Si aggiunge? No, non precisamente; non è il medesimo mistero. Dio ci possiede soltanto nella misura che noi consentiamo, mentre la natura umana assunta dal Verbo non implica un consenso di questa natura, quasi che questa natura sussistesse già in una persona umana che poteva consentire all'azione dello Spirito. Per noi invece è diverso: Egli ci possederà nella misura che consentiremo. Allora tutta la nostra vita non deve essere che questo consentire alla forza divina che ci investe e ci rapisce, a questa forza divina che ci travolge. Lasciarci travolgere; lasciarci portare, non aver paura. Oh, certo, noi vogliamo esser amati, ma l'amore di Dio ci fa anche paura. È un amore così grande e così immenso! È un fuoco che ci brucia e ci consuma totalmente! Ma noi non dobbiamo aver paura. Proprio questo invece dice che noi abbiamo ricevuto lo Spirito: l'esser passati dallo spirito di servitù, dalla paura, allo spirito di adozione a figli, allo spirito della libertà, allo spirito dell'amore, al sentimento della più pura fiducia, del più puro abbandono. Si può aver paura fintanto che vogliamo esser nostri, fintanto che non vogliamo concederci, fintanto che non vogliamo esser posseduti; ma se tu ami, come potresti aver paura di esser posseduto da Dio? Lasciati prendere! Lasciati rapire! Lascia che Dio faccia di te quello che vuole! È questa la gioia! Non vi è altra gioia che perderci finalmente a noi stessi per esser posseduti da Lui.
… di cui già siamo figli
"E noi abbiamo ricevuto lo spirito di adozione a figli". Guardate che non dice che lo riceveremo: dice che lo abbiamo già ricevuto. Non possiamo mica dubitare della parola di Dio: Egli l'ha detta a noi. E dunque, al primo annuncio segue quest'altro annuncio, ugualmente grande, ugualmente luminoso: non solo che Dio ci ama, che Dio ci vuol possedere, ma che Dio già ci ha fatto passare dalla servitù all'adozione, Dio ci ha fatto già suoi figli. Realmente abbiamo ricevuto lo Spirito. Possiamo ancora non esserci abbandonati totalmente a questo Spirito di Dio; pur tuttavia l'abbiamo già ricevuto in qualche misura. Non come il Figlio, che lo riceve senza misura, secondo il IV Vangelo, ma in una qualche misura. E la misura non è data da Dio, che se si dona si dà senza misura, Egli che non ha misura, Egli che è indivisibile: la misura del dono dipende dal nostro consenso. Ma comunque l'abbiamo ricevuto, l'abbiamo ricevuto in tal modo che possiamo consentire sempre più pienamente, l'abbiamo ricevuto in tal modo che questo primo entrare di Dio nell'anima nostra può essere l'inizio di un dilatarsi senza fine dell'anima nostra ad accogliere Dio, può essere l'inizio di un abbandono sempre più puro e sempre più perfetto all'azione di questo medesimo Spirito.
Già siamo figli: ecco il secondo annuncio che ci dà l'Epistola di San Paolo. Già siamo figli perché già abbiamo ricevuto lo spirito di adozione. Che cosa vuol dire essere figli? Vuol dire non vivere più un lavoro, un servizio. Il figlio non serve. Ed effettivamente, quando saremo perfettamente i figli, nel Cielo, allora non serviremo perché Dio non ha bisogno del nostro servizio. Ma già ora, l'opera fondamentale del figlio non è più il servizio, non è più l'amministrazione dei beni del Padre. Il lavoro del figlio, praticamente, è uno solo: quello di gridare, di cantare: "Abbà, Padre!"; quello di volgersi a Dio, quello di lodarlo, di amarlo; quello di non vedere più che Lui, quello di far di tutta la vita un canto di amore. E tu lo senti, e tu lo sai, che è precisamente questo che Dio vuole da te. E tu lo senti, e tu lo sai che è precisamente questo che lo Spirito in te opera. È per questo che Egli agisce nell'intimo tuo. Non ti chiama tanto a un servizio quanto a questa vita di amore; ed è questa la nostra vocazione. Quante volte si è detto: la nostra vita? Tutta perduta, non facciamo mica nulla! A voi, veramente sembra di far qualche cosa: non state ferme dalla mattina alla sera. Eppure non è questo il lavoro fondamentale. Il vostro lavoro fondamentale è quello di cantare, è quello di lodare Dio, di amare. Puramente di amare.
Vita contemplativa
L'ordinarsi della nostra vita alla contemplazione dice questo. La contemplazione non è più un'opera, non è più un servizio: è la pura lode, il puro canto. Non è forse vero? Ed è a questa pura contemplazione che è ordinata la nostra vita. La nostra vocazione è questa: una vocazione o immediatamente o indirettamente contemplativa, che ci ordina a questo atto supremo del Figlio che è la lode del Padre, a questo atto supremo del Figlio che è l'amore.
Notate come l'Epistola ai Galati riprende questo versetto, ma lo dice in un modo diverso: non "nel quale gridiamo Abbà Padre", ma "che grida in noi Abbà Padre". Vedete: l'opera nostra è l'opera dello Spirito; l'opera dello Spirito è l'opera dell'uomo; non c'è differenza.
Ma allora notiamo una cosa che è importantissima. Diceva uno chassidi: "La preghiera è una grande cosa: è la stessa Divinità". Giusto! Se la nostra preghiera è lo Spirito che grida, nella nostra preghiera viviamo già la vita divina. È per questo che nella preghiera noi sentiamo l'essere nostro dilatarsi, trasfigurarsi, penetrarsi di grazia, sentiamo come dall'essere nostro cada ogni scaglia di materialità, di pesantezza, ci sentiamo penetrati da Dio, dalla luce divina. "La preghiera dell'uomo è la stessa Divinità". Il chassidi non poteva dirlo, veramente, perché per lui rimaneva atto umano quello della preghiera; ma per noi non è più un atto puramente umano, è un atto anche di Dio; è Dio che prega in te, è lo Spirito Santo che geme in te con gemiti inenarrabili; e la tua preghiera è tua, ma è anche di Dio. È tua perché è di Dio, è di Dio perché è tua. Dio e tu non siete più che uno. Unità di vita: lo Sposo e la sposa non vivono più che una medesima vita. Sono due, ma la vita rimane una: e la vita dell'Uno e dell'altra è l'amore, questo esalarsi dell'essere nel canto: "Abbà, Padre!".
E ora l'ultima parola che ci dice l'Epistola: non è altrettanto bella? "È lo stesso Spirito che attesta che siamo figli di Dio". La testimonianza dello Spirito in noi. Ne possiamo dubitare di questa testimonianza? Tanto più questa testimonianza diverrà certa, inoppugnabile, quanto più il consenso dell'anima all'azione dello Spirito sarà pieno e puro; quanto più, cioè, Dio c'investirà. Se noi abbiamo consentito poco, se noi ancora siamo così avari con Dio da donarci a contagocce, certo che la testimonianza dello Spirito nella nostra vita non sarà così piena né così sicura: certo che in noi la testimonianza dello Spirito di esser figli di Dio rimarrà sempre estremamente dubbia ed incerta ed oscura. Ma se noi ci siamo abbandonati totalmente allo Spirito, non potremo più dubitare. Ecco di qui le parole estremamente audaci di San Simeone il Nuovo Teologo, di qui anche le parole di tutti i mistici della Chiesa occidentale, di Santa Teresa: "Non posso dubitare di essere in Dio e che Dio sia in me", ella dice. Le cose presenti danno testimonianza della loro realtà attraverso i sensi dell'uomo, ma vi sono sensi spirituali per i quali davvero si rende certa anche all'anima nostra la presenza di Dio, si rende certo anche all'anima nostra l'amore di Dio, questa vita divina che Egli ci ha comunicato e che già canta in noi e che già ci beatifica.
Ed è questa la nostra vocazione: vivere nel mondo presente proprio come testimonianza della vita futura, come presenza anticipata nel mistero, di quella beatitudine pura, di quella pura luce dell'amore infinito di Dio. Questa è la nostra vocazione: vocazione però che non è soltanto un richiamo, vocazione che Dio non lascia compiere a te. Nell'istante medesimo che Egli chiama, già Egli opera quello che a te chiede, perché giustamente Lui solo può rispondere a quanto Egli stesso domanda. Abbandoniamoci a Dio e vivremo questa vita di purezza, di semplicità, e vivremo questa vita di libertà e di amore, e vivremo questa vita di confidenza, la parresia. È uno dei temi fondamentali della mistica cristiana: questo abbandono puro, semplice, assoluto, questo abbandono gioioso, questa libertà pura dell'anima in Dio. Viviamo tutto questo. Viviamo crescendo all'amore, abbandonandoci a questo medesimo Spirito che ci è stato donato e già ora ci investe e ci vuol possedere totalmente.
Prima meditazione
La vita, un cammino di liberazione

"Noi non siamo schiavi della carne per dover vivere al suo servizio; se quindi vivrete secondo la carne morrete, mentre se mediante lo Spirito soggiogherete all'anima le opere della carne, vivrete".
Con grande semplicità, mi sembra che sia bene riprendere il testo dell'Epistola che abbiamo meditato anche stamani durante la santa Liturgia, e meditare con maggiore attenzione la parola del Signore, fermandoci su ogni versetto e cercando di capire quello che lo Spirito Santo ci vuole insegnare attraverso le parole dell' Apostolo.
"Non siamo debitori alla carne". Si diceva già stamani che "carne", anche nel IV Vangelo, ma soprattutto nell'apostolo Paolo, non implica per sé un richiamo soltanto al corpo, ma alla natura umana concreta. Dopo il peccato l'uomo è divenuto tutto carne, secondo il linguaggio estremamente concreto e anche un po' violento della Sacra Scrittura. Ora l'uomo non è debitore alla carne; non ha nessun dovere, non ha nessun debito verso questa natura vulnerata dal peccato. L'uomo, perciò deve, vivendo, affrancarsi dal dominio di essa, deve vivere la sua libertà nei confronti di questa natura. Il vivere, per l'uomo, non è altro che un processo di liberazione. Giustamente, la salvezza si esprime, tanto nel linguaggio di Paolo come nel secondo Oremusdell'Ora di Prima, col termine di libertà: Salvi et liberi esse mereamur e così anche tutta l'Epistola ai Romani. Il cammino dell'uomo nella sua redenzione è un cammino che dalla legge tende alla sua libertà.
L'uomo non è debitore; non ha nessun dovere verso questa carne che l'opprime e l'ha reso schiavo. Perciò nella esperienza di questa sua schiavitù, l'uomo deve sempre più sentire e sempre più vivere un impegno di affrancamento, di liberazione. Non abbandonarci a noi stessi, alla nostra natura, ma liberarci dall'impero che la nostra natura, vulnerata dal peccato, vuole imporre al nostro medesimo spirito. Debitores sumus non carni. Non dobbiamo render conto di noi stessi a noi stessi, ma a Dio. Ecco quello che mi sembra che dica l'apostolo Paolo all'inizio di questa Epistola. Ci richiama cioè al dovere di un affrancamento, di una liberazione; a prender coscienza della necessità per noi e di questo affrancamento e di questa liberazione, che è tutto il cammino dell'anima nella sua vita spirituale. Non dobbiamo vivere secondo la carne. La carne ci può imporre la sua legge, ma l'uomo deve liberarsi da questa legge. Perché di fatto, dice l'Apostolo, se noi vivremo secondo la carne morremo. Ecco perché non siamo debitori alla carne. Voler consentire agli istinti implica per sé un abbandonarsi alla morte. Non dobbiamo nulla alla carne, perché nella misura anzi che noi ci sottoporremo alla sua legge, nella stessa misura noi perderemo la vita. Vivere per l'uomo è affrancarsi da questa schiavitù.
E poi ecco quello che vorrei meditare con voi perché quello che vi ho detto finora era in fondo ordinato a vedere quello che c'insegna l'Apostolo con quest'altre parole: "Se invece per lo Spirito voi mortificherete le opere della carne, vivrete". Con queste parole l'Apostolo c'insegna in che modo praticamente noi possiamo riconoscere se è lo Spirito che ci conduce: vivere secondo lo Spirito vuol dire mortificare le opere della carne. Allora l'azione dello Spirito Santo tende a questa mortificazione della nostra natura vulnerata dal peccato.
Natura e grazia
È tutto l'insegnamento delle Beatitudini che qui implicitamente si fa presente. Il Regno di Dio, questo dilatarsi della vita divina nel cuore dell'uomo implica come sua condizione un morire agli istinti. Dio dilata in te il suo Regno nella misura che tu, nella tua povertà, nell'umiltà, nella dolcezza, nella purezza, ti sottrai alla legge della carne, per usare il termine della Scrittura. Il cammino dell'uomo, guidato da Dio, porta l'uomo a vivere la beatitudine stessa di Dio, a possedere la stessa pace di Dio, a possedere nell'intimo la stessa dolcezza di Dio. Ma tutto questo non si fa presente nell'uomo che in una mortificazione, in un annientamento, che dobbiamo considerare non voluto per sé, ma operato dallo Spirito stesso che t'invade o realizzato dallo Spirito come condizione precisamente a una maggiore sua presenza, a un trionfo maggiore della sua azione nell'uomo. In queste parole mi sembra già insegnato tutto il cammino dell'anima verso la libertà dei figli di Dio.
È certo che è estremamente doloroso dover vedere come natura e grazia sono in qualche modo in tensione fra loro, anzi, in contrasto; ci sembra anche in qualche momento che questa dottrina non possa esser conforme a verità. Non è Dio che ha creato la natura? Come dunque la natura dovrebbe esser soppressa in questa invasione dello Spirito? La vita spirituale, la vita divina, non esige una trasformazione della natura, una trasfigurazione che non è annientamento, ma è superamento di essa? Che non è una mortificazione, una morte, ma un trionfo maggiore di vita? Eppure il linguaggio dell'Apostolo è estremamente preciso e chiaro:Si Spiritu facta carnis mortificatis, vivetis. Il vivere nello Spirito e per lo Spirito implica una mortificazione delle opere della carne, mortificazione che non si può compiere che mediante lo Spirito; anzi, il vivere dello Spirito in te opera questa mortificazione. In altre parole: la vita cristiana implica due elementi di cui uno non è condizione dell'altro ma tutti e due sono presenti e sono realizzati da questa stessa invasione di Dio nell'anima tua. Perché Si Spiritu facta carnis mortificatis ci dice come la stessa mortificazione delle opere della carne sia opera dello Spirito: se nello Spirito, se per lo Spirito voi mortificherete le opere della carne, vivrete. Il vivere e il mortificare sono l'atto identico e simultaneo di un medesimo Spirito che entra nell'anima tua, ti investe e ti colma.
È l'insegnamento dell'ascesi cristiana e dell'ascesi anche di ogni altra religione. Ma che differenza c'è fra quello che possono insegnare l'ascesi buddista o indù e l'ascesi cristiana? La morte, là, sembra voluta per sé. Perché dal momento che non vi è una dottrina esplicita, chiara, che riguarda Dio, la mortificazione sembra essere fine a se stessa. La mortificazione, poi, è operata dall'uomo. Non implica un'azione dello Spirito; non è un aspetto della vita divina, di una vita divina che t'invade: è il tuo atto che realizza questa morte. Per questo, un cristiano, di fronte alle affermazioni, non dico l'esperienza religiosa, dico le affermazioni proprie del Buddhismo o dell'lnduismo, rimane molto in riserva. Non può accettare una simile dottrina. Per noi la morte non è fine a se stessa: è anzi un aspetto e, direi, l'espressione stessa della vita. Noi si parla tanto di morte, nel Cristianesimo: in realtà non se ne dovrebbe nemmeno parlare. Il morire, per il cristiano, vuol dire morire precisamente ai limiti, morire precisamente a una schiavitù, morire precisamente alla morte. Ma tu non muori alla morte che nella misura che precisamente Dio entra in te, Dio si fa presente in te, Dio ti invade, Dio ti colma. E quello dunque che è più importante, in questo insegnamento cristiano, è questa vita che entra, è questa vita che invade, è questa vita che ti sommerge. Non solo perché è l'elemento positivo, ma perché è precisamente questa vita che opera questa morte.
Le Beatitudini
Si Spiritu facta carnis mortificatis, vivetis. Oh! Tutto il cammino dell'anima nella vita spirituale! Sembra veramente che l'anima affondi come nel nulla; ma è il contrario che è vero. Tutto quello che è imperfetto, che è limitato, tutto quello che pesa, che è opaco, tutto lentamente si allontana nella presenza di un Dio che vive nel cuore dell'uomo. Perché sono precisamente questo i facta carnis, son queste le opere della carne: l'opacità, la pesantezza, il limite, la morte. La povertà cristiana veramente s'identifica alla ricchezza; come la dolcezza si identifica precisamente al possesso. Può sembrare paradossale il linguaggio del Vangelo, ma rimane parola di Dio. Non solo vera, però, perché è parola di Dio, cioè vera indipendentemente da una esperienza che l'anima possa avere; ma vera anche per una nostra esperienza intima, che ce ne garantisce in qualche modo la verità, anche se la garanzia di questa verità non dipende in fondo da una nostra esperienza, ma dal fatto proprio che è parola di Dio. E voglio dire: non è forse vero che è colui che è mite che veramente possiede la terra? Che veramente ha un'esperienza di dominio, di quella pace che è il segno di un perfetto possesso delle cose e di sé? E voglio dire: non è la povertà cristiana che dà all'anima già una esperienza di una ricchezza ineffabile, che nessuna cosa potrebbe compromettere perché nessuna cosa ha la possibilità d'intaccarla? Le cose umane possono intaccare la tua ricchezza, gli avvenimenti umani possono compromettere il possesso dei beni che hai; ma nessun avvenimento umano può compromettere la tua povertà. Avvenga quello che avvenga, nulla dall'esterno potrebbe nuocerti, nessuna cosa potrebbe toglierti quello che hai: la tua povertà. Ed è precisamente in questa povertà, in questo distacco del cuore, in questa purezza interiore che tu veramente tutto possiedi. Il cammino dell'anima guidata dallo Spirito non è questa presenza di un Dio che entra in te e ti riempie nella misura che tutto da te si allontana come non fosse? Non che tu debba buttar via le cose: son le cose che non ti legano più. Non che tu debba buttar dalla finestra quel che possiedi: tu non possiedi più nulla, anche se tu usi di tutto, perché non sei posseduto più da cosa alcuna. Possedere è esser posseduti; ma l'anima che possiede Dio è anche soltanto da Lui posseduta e per questo anche è libera.
Noi vivremo nella misura che nello Spirito Santo si opererà questo spogliamento, questa liberazione, piuttosto. Se non vogliamo usare i termini di spogliamento o di morte, se ci dà noia anche il termine che usa San Paolo, mortificatis e di fatto è un termine che dobbiamo capire, usiamo il termine vero, quel termine che è implicito, piuttosto, nelle altre parole dell'Apostolo: "liberazione". Una mortificazione dalle opere della carne implica una liberazione dalle opere della carne. Vivere per noi vuol dire sempre più morire alla morte, sempre più liberarci dalla schiavitù della carne, sempre più allontanarci, spogliarci, o meglio: scioglierci da tutto quello che ci lega, spogliarci da tutto quello che ci pesa, purificarci da tutto quello che ci obnubila, ci acceca, che rende meno puro il nostro sguardo.
La morte per il cristiano
Per ritornare a quanto si diceva prima, secondo altre religioni, questo cammino di mortificazione è un cammino umano, è l'uomo che si dona la morte. Noi abbiamo detto che questa mortificazione, questo spogliamento, questa liberazione, è opera dello Spirito: e soltanto nella misura che lo Spirito opererà questa mortificazione, questo spogliamento, questa liberazione, noi vivremo. Ma si potrebbe noi mortificarci senza che lo Spirito operasse con noi questa mortificazione, ci desse il potere di mortificarci? Ecco la grande illusione delle ascesi fuori del Cristianesimo: che cioè si possa mortificarci da noi. Siccome la mortificazione è l'elemento, è l'espressione stessa della vita, nella stessa misura noi moriamo in cui la vita divina ci investe; noi moriamo nella stessa misura in cui Dio si fa presente nell'anima nostra. Noi c'illudiamo di poterci mortificare da noi; ma invece, siccome la mortificazione è appunto un elemento della vita, non si può operare questa mortificazione che nella misura stessa che Dio si fa presente nel cuore dell'uomo.
Di qui deriva che le ascesi al di fuori del Cristianesimo non operano la morte. Possono, sì, essere insegnamento di una mortificazione della carne ma non sono un insegnamento della mortificazione dello spirito umano. L'uomo, in fondo, da sé solo, non potrebbe operare questo spogliamento totale, non potrebbe operare questa sua liberazione. Può cadere da una schiavitù in un'altra schiavitù, ma soltanto se l'anima diviene serva di Dio è veramente libera. Trovo giusto che si debba avere una certa ripugnanza a dover parlare di morte. Effettivamente, fermandoci soltanto su questo elemento, c'è il rischio che facciamo nostra la dottrina di quest'ascesi non cristiana. Per il cristiano, invece, il morire è precisamente un aspetto negativo di quello che è, in termini positivi, la vita stessa di Dio che entra in lui. Può sembrare illogico che tu prima debba morire e poi vivere: di fatto tu muori nella misura che vivi, tu muori alla carne nella misura che vivi allo Spirito. O piuttosto, tu muori alla tua natura nella misura che lo Spirito ti prende e ti possiede, t'investe e ti trasforma, entra in te e ti trasfigura.
Considerate come l'insegnamento evangelico sia un insegnamento che ha implicita questa morte, ma si esprime in termini totalmente positivi: "Beati i poveri perché di essi è il regno dei cieli; beati i miti perché possederanno la terra; beati coloro che piangono perché saranno consolati... "; ma il "saranno" non rimanda a domani. Dobbiamo renderci conto che beati siamo già ora, anche se la consolazione piena sarà soltanto domani. Il Vangelo parla in termini positivi. Qui, San Paolo sembra parlare in termini negativi: Si Spiritu facta carnis mortificatis, vivetis. Ma l'insegnamento rimane uno solo ed è questo: non vi è possibilità per l'uomo di essere invaso da Dio che nella misura che egli in qualche modo vien meno a se stesso: prima al suo peccato, poi alle sue imperfezioni, agli stessi limiti propri della sua natura creata. Davvero, essere invasi da Dio vuol dire morire a noi stessi. Ma questa morte è una morte beata: Beati mortui qui in Domino moriuntur. È, si diceva, un vivere la stessa vita di Dio.
Implica forse, questo, un certo monofisismo? Implica cioè un disprezzo di quelle che sono le esigenze proprie della natura umana e soprattutto implica l'insegnamento di una distruzione ontologica dell'essere creato? No! Ma implica quello che noi vediamo nel Cristo: una trasfigurazione operata dallo Spirito, che sottrae in qualche modo la natura umana a ogni esperienza terrestre. Egli è l'Uomo anche ora, ed eternamente Egli rimane Uomo. Eppure come possiamo dire che Gesù risorto da morte, viva ora la nostra povera vita? È la nostra vita umana coi suoi limiti, nella sua forma, che è propria di Gesù? Invaso dallo Spirito, glorificato dallo Spirito, l'Uomo Gesù vive ora una vita uguale alla nostra? Egli rimane Uomo, ma per vivere anche nella sua natura la stessa beatitudine e gloria di Dio. Tutto questo è forse un qualche cosa che distrugge o mortifica in senso proprio la natura umana del Cristo? Che la rende meno perfetta di quanto non sia la nostra natura? Gesù Uomo è più perfetto o meno perfetto ora, come uomo intendo dire, di quanto non lo fosse avanti la sua morte? Mi sembra che questo basterebbe a farci capire come la necessità di un nostro morire non sia affatto un elemento di mortificazione in senso proprio, non sia che la condizione a una invasione della luce divina in noi.
L'azione della grazia...
Per riprendere l'insegnamento delle Beatitudini: siccome la vita eterna futura non è che in continuazione alla vita di grazia che noi già possediamo, noi non possiamo vedere nella vita di gloria che è propria della umanità di Gesù oggi, che il termine proprio del nostro stesso cammino che a quel termine deve approssimarci sempre più. Queste due vite, la vita presente e la vita futura, la vita di grazia e la vita di gloria, non sono in opposizione fra loro: è un cammino continuo. Ed è ben questo che la grazia opera in te. Non è forse vero che nella misura che lo Spirito ti invade viene meno in te ogni volontà di potenza, e tanto più tu domini e regni quanto più ti fai umile e dolce, quanto più la tua natura investita dallo Spirito perde ogni sua asprezza, perde ogni sua rigidità, diviene pieghevole, senza durezza: docile, malleabile, liquida all'azione di Dio? Non è forse vero che via via che la grazia opera in te, entra in te, sempre più il tuo cuore si stacca dalle cose presenti, si libera da ogni asservimento alle cose, da ogni legame che ci rende schiavi delle creature perché nella libertà, l'anima già vive una sua esperienza del Regno, anzi, ne vive già il possesso iniziale?
Ora, è precisamente in questo cammino che noi dobbiamo consentire allo Spirito. Si diceva stamani che, in fondo, a noi non viene chiesto che questo. È vero che dobbiamo mortificarci ma nello Spirito, per lo Spirito: praticamente, noi ci mortificheremo soltanto per lo Spirito Santo, per la forza di questo Spirito, nella misura che noi consentiamo alla sua azione. Ora, tutta la vita cristiana consisterà precisamente nel consentire a questa azione dello Spirito che ci spoglia, che ci purifica e ci rende più lievi. Povertà, umiltà, semplicità. Guardate come tutte le virtù cristiane abbiano a prima vista soltanto un carattere negativo. E guardate invece come queste virtù non sono che il segno di una presenza: di un elemento non positivo, ma più che positivo, divino. È Dio stesso, la presenza di Dio. Povertà, umiltà, purezza: il cammino dello Spirito ci porta qua. Effettivamente tutte le Beatitudini non sono che una sola parola: "Beati i poveri".
Bisogna consentire dunque all'azione di questo Spirito che ci porta per questo cammino, che ci trascina, ci muove: prima dolcemente poi ci investe e ci sforza per questo cammino, poi ci travolge con una forza sempre maggiore via via che acconsentiamo alla sua azione. In noi l'azione dello Spirito è così insensibile che, direi, ci sembra di muoverci noi stessi verso questa povertà e per questo, muovendoci noi stessi, noi non percepiamo tanto l'elemento positivo di questa azione quanto l'elemento negativo ed è una mortificazione che ci viene chiesta. Via via, invece, che noi acconsentiamo allo Spirito e investiti dallo Spirito noi ci abbandoneremo alla sua forza che ci travolge allora, nella stessa misura, invece che l'elemento negativo, noi avremo esperienza dell'elemento positivo di quest'azione dello Spirito in noi. Non viviamo più tanto una mortificazione quanto la vita stessa di Dio. San Francesco non si accorge di esser povero: si accorge soltanto di esser ricco. Noi, certo, sentiamo prima di tutto questo sforzo che dobbiamo compiere per liberare il nostro spirito dall'attaccamento alle cose, eppure sentiamo, nonostante tutto, che in questo spogliamento un Altro ci sforza, non soltanto dall'esterno, ma per una grazia interiore e ci spinge verso questa libertà sempre maggiore. Rimane vero per noi che dobbiamo mortificarci, che cioè questo cammino implica prima il sentimento, l'esperienza di un nostro morire. Ma noi non viviamo questo nostro morire come una morte, viviamo questo nostro morire come una condizione a che lo Spirito Santo entri sempre più nell'anima nostra e sempre più la invada, e sempre più la possegga. Anche se abbiamo l'esperienza di un nostro morire, non vogliamo questo nostro morire che come condizione, precisamente, a questa invasione di Dio.
... accolta nella fede
E allora s'impone a noi, proprio perché non viviamo ancora questa azione dello Spirito nell'elemento positivo più che nell'elemento negativo, s'impone per noi che la fede ci sostenga, che noi ci rendiamo conto cioè che nel nostro vivere la morte non siamo noi che viviamo, ma che un Altro in questo cammino ci spinge, a questo cammino ci porta. Dobbiamo, nella fede, renderci conto che soltanto nella misura che consentiamo a morire la vita subentra. Possiamo non avere un'esperienza così viva della vita come invece abbiamo un'esperienza viva della nostra morte: proprio per questo ci rimane difficile consentire all'azione dello Spirito e allora ci deve soccorrere la fede. Se la fede ci sostiene, se la fede ci aiuta, allora noi consentendo allo Spirito daremo sempre più modo allo Spirito di invaderci, di penetrarci, di muoverci con una forza maggiore. E allora da un'esperienza di morte noi passeremo a sentire più profondamente, a sperimentare sempre più prepotente, invece, l'azione della vita, questa invasione della vita. Allora, all'esperienza di un'ascesi mortificante subentrerà sempre più l'esperienza di un mistico possesso di Dio. Allora al linguaggio di Paolo più facilmente risponderà il linguaggio di Gesù: "Beati i poveri". Comunque, mi sembra che sia questo l'insegnamento dei primi versetti dell'Epistola di oggi: sentire che l'azione dello Spirito Santo ci porta a esser mossi da questo stesso Spirito, a un nostro sparire, a un nostro venir meno a tutti i limiti creati, a tutte le nostre imperfezioni, perché si faccia presente in noi sempre di più il Signore, perché in noi viva sempre più Lui e Lui solo.
Ma si noti quello che dice Paolo qui nella Lettera, tanto nella prima parte del versetto che nella seconda parte: la persona che esperimenta la morte e la vita è sempre l'uomo. È Dio che opera questa morte, è Dio che fa presente in te questa vita; ma sei tu che muori e sei tu che vivi. Cioè: se anche lo Spirito Santo t'investe, non distrugge la tua sussistenza, non vi è un annientamento di te. È Dio che opera la tua morte, è Dio che vive in te la sua vita. Ma sei anche tu che muori per questa azione dello Spirito, ma sei anche tu e tu solo che vivi per questa vita dello Spirito che in te trabocca, che in te si fa presente. Questo dobbiamo tenere ben presente, perché non si trasformi, questa dottrina di una certa sostituzione della vita umana alla vita divina, in una certa sostituzione di Dio all'uomo. Non c'è sostituzione di Dio all'uomo: l'uomo rimane, ma per vivere in Dio; l'uomo rimane ma per non avere altra vita che quella divina, come Gesù: nella sua natura umana non vive più la vita che è propria dell'uomo ma vive la vita del Figlio; e nella natura umana creata e nella natura increata non vive più che una vita.
Il fatto che Egli non viva più la mia vita condizionata dal tempo, dallo spazio, limitata nel suo potere, limitata nella sua influenza: il fatto che non possa vivere più questa vita non lo fa meno uomo, non distrugge in Lui quella natura che Egli ha ricevuto da me; non lo fa meno perfetto, non soltanto come Dio ma nemmeno come uomo. Egli rimane ora perfetto uomo come era uomo quaggiù, ma non vive in questa natura che la vita di Dio, che una vita che è la vita stessa dello Spirito. Così noi dobbiamo vivere.
Seconda meditazione
Accettare i tempi dello Spirito...

Tutta l'azione dello Spirito Santo tende a una nostra trasfigurazione, dunque; a una nostra spiritualizzazione; ma a una nostra spiritualizzazione nel senso dello Spirito con la "S" maiuscola, cioè una divinizzazione nostra che implica una trasfigurazione anche dell'essere umano. Questa trasfigurazione, si diceva prima, si opera attraverso una morte, a un venir meno a quello che sono prima i peccati, poi le imperfezioni proprie della natura creata. Una morte. È chiaro che noi dobbiamo consentire a questa azione. In che modo noi consentiamo? Per il fatto che noi sappiamo che l'azione di Dio ci porta a una trasfigurazione totale ed esige in un certo senso una morte anche totale, noi dobbiamo operarla immediatamente questa morte? Dobbiamo cercare di entrare violentemente per questa via? Ricordiamoci che tanto il vivere come il morire, il morire a noi stessi o il vivere in Dio, sono l'atto dello Spirito, si operano per una invasione dello Spirito in noi. Non solo la vita divina implica questa presenza, ma anche un morire di te a te stesso. Non si deve entrare per questa via violentando le porte. È pericoloso sottoporci ad una mortificazione a cui non ci spinge dolcemente, ma in qualche modo irresistibilmente, la grazia. Pretendere che noi si possa vivere, oggi, la vita di un Francesco d'Assisi nella sua morte, è mettersi in condizioni poi di non affidarci più direttamente allo Spirito Santo, ma probabilmente ci mette nelle condizioni di subire tentazioni e reazioni da parte della nostra natura, alle quali noi non siamo ancora preparati. Bisogna lasciare a Dio l'iniziativa in tutta la nostra vita di grazia; bisogna che sia Lui ad aprire all'anima il cammino e a dettare all'anima la legge del suo progresso. Fare un passo più grande o muoverci con maggiore rapidità di quello che ci consenta la grazia interiore, è metterci sempre in un pericolo prossimo di cadere. Dobbiamo anche in questo rispettare l'azione di Dio, dobbiamo anche in questo renderci conto che tanto più sarà sicuro il nostro avanzamento, quanto più sarà umile la nostra dipendenza, la nostra docilità alla grazia divina. Anche la mortificazione può essere un'opera carnale, opera della nostra natura, se "carne" nel linguaggio dell'apostolo Paolo non vuol dire soltanto carne, ma vuol dire natura umana nell'economia presente di peccato. La mortificazione è elemento negativo di questa vita divina solo nella misura che Dio t'investe.
È certo però che lo Spirito Santo ti conduce per questa via; cioè, tu non puoi dubitare che Dio ti porti per una via di spogliamento, di purificazione, di liberazione interiore. Il modo onde si opererà questo spogliamento devi lasciarlo a Dio; o piuttosto, per quanto riguarda il progresso di questo cammino di spogliamento, per quanto riguarda la via che devi intraprendere per questa liberazione, tu devi mantenerti docile alla grazia. Ma sei già sicuro che non è lo Spirito che ti porta se tu non procedi per questa via. È chiaro che una trasfigurazione dell'uomo implica sempre un nuovo morire agli istinti naturali. Non è invece chiaro in che misura tu debba morire a questi istinti oggi.
... lasciandoci docilmente condurre
Lascia a Dio di agire in te: ecco quello che mi sembra molto importante e molto pratico per la vita interiore. Ci può essere in tutti noi una certa ansietà di raggiungere la perfezione, che ci spinge anche per una via di mortificazione con una forza maggiore di quella della grazia. Ora se noi procediamo con questa forza e procediamo da soli, noi dobbiamo temere che questo progresso ci porti ad essere più carnali, cioè più legati a noi stessi, cioè più orgogliosi, cioè più indocili all'azione di Dio. Umiltà, semplicità, attenzione al Signore. Attenzione umile, pura. Procediamo per una via di umiltà, per una via di povertà, per una via di semplicità, ma procediamo in obbedienza sempre all'azione segreta di Dio. Procediamo per questa via non preoccupati della nostra mortificazione, non preoccupati di portare a termine questa mortificazione, ma preoccupati soltanto di essere obbedienti, di essere docili al Signore, di lasciare che Lui ci porti per mano, di lasciare che Lui sempre più ci investa e ci penetri, di lasciare a Lui sempre più il possederci e il condurci.
Tutto il lavoro dell'anima non può consistere che in questo lasciar sempre più posto a Dio in noi. Certo che da principio questa azione dello Spirito Santo è molto più segreta e molto meno conosciuta dall'anima stessa: appunto per questo la mortificazione sembrerà opera nostra; ma anche allora noi possiamo procedere in obbedienza: in obbedienza a leggi esteriori, nella misura che Dio ci rimane estraneo, ci rimane un po' sconosciuto. Obbedienza al Direttore spirituale, obbedienza al Superiore religioso, obbedienza alle leggi, obbedienza anche alle norme comuni dell'ascetica cristiana. Via via che saremo purificati da questa obbedienza a una legge esteriore, subentrerà invece la docilità all'azione di Dio; e tu non vivi la tua morte, ma vivi invece questa invasione dello Spirito, ma vivi invece questo consenso a un Dio che ti possiede. Tu muori a te stesso, e morire a te stesso che cosa vuol dire se non lasciarti possedere da un Altro? In fondo, morire non è un venir meno dell'essere creato: è un venir meno, invece, di quell'autosufficienza, di quella autonomia in cui ci ha chiuso precisamente il peccato, per essere sempre più invece posseduti da Dio a immagine e somiglianza della natura umana assunta dal Verbo, onde questa natura non ha più nessuna autonomia, ma tutta sussiste nel Verbo, tutta nel Verbo trova la sua consistenza.
Terza meditazione
Divenire figli nel Figlio

Ecco dunque il modo per vivere: quello di morire. Il cammino che porta alla vita è un cammino di morte: morire a noi stessi per vivere a Dio. Le parole dell'Apostolo Paolo ci richiamano quello che è il programma della Comunità: le Beatitudini. Noi saremo veramente testimoni di Dio, noi veramente dimostreremo che Dio è presente nel mondo, proprio in questo venir meno a noi stessi, in questo lasciar posto nella nostra anima a Lui. Ci sembra proprio che questa sia la formula esatta della vita spirituale: lasciar posto al Signore, divenire una capacità che lo accoglie, lasciarci assumere da Lui, lasciarci possedere da Lui nella pace e nell'umiltà, nella dolcezza, nella purezza, nella semplicità. Le Beatitudini: questa è la vita dello Spirito. La lampada brucia consumando l'olio: lo Spirito di Dio vive nel cuore umano vivendo di noi, alimentandosi di tutta la nostra natura. Umiltà e purezza.
Ma l'Apostolo prosegue e nel proseguire egli non soltanto ci dice che vivere per noi vuol dire abbandonarci allo Spirito. Non soltanto ci dice che l'atto, in fondo, che ci è richiesto, è soltanto un consentire alla sua forza, un lasciarci possedere da Lui, ma ci dice anche qual è l'opera dello Spirito. "Se noi vivremo...". Che cosa vuol dire per noi vivere? Vuol dire divenire figli. L'opera dello Spirito è la concezione del Verbo Incarnato, come abbiamo cantato stamani nel Credo: de Spiritu Sancto ex Maria Vergine. Mossi dallo Spirito Santo noi diveniamo i figli, siamo i figli. Ecco l'elemento positivo della vita cristiana: partecipare alla relazione del Figlio Unigenito al Padre; vivere questa relazione di amore; anzi, essere questa relazione di amore. Perché il Figlio non è se non in relazione al Padre: Relatio subsistens e proprio perché è pura relazione di amore, in Sé e per Sé non è nulla. Se anche le Persone in Dio in Sé e per Sé non sono nulla, quanto meno sarà in sé e per sé qualche cosa, l'uomo che allo Spirito di Dio si abbandona? Non vi sembra che sia giusto, dunque, questo morire, se in fondo anche le Persone divine in quanto sono pura relazione di amore, in Sé e per Sé non sono nulla e perciò in Sé e per Sé vivono in qualche modo una certa morte a Se stesse? Non si può dire che vivono una certa morte, intendiamoci bene: perché? Semplicemente perché per morire bisogna che prima si posseggano. Ora, la Persona divina non si possiede mai, per poter poi rinunciare a Se stessa; ma l'uomo sì, si possiede. Si possiede prima, in quanto creatura perché la legge della creatura è l'egoismo; si possiede poi per doppia ragione per il peccato, perché nell'egoismo la creatura ancora di più si chiude e si difende dalla grazia. Ora, essere investiti dallo Spirito per noi vuol dire dunque una duplice morte: morire in sé come creatura in quanto la creatura come tale non ha altra legge che quella di un certo egoismo: solo a Dio appartiene l'agape, anzi, l'agape è Dio stesso. Per questo vedete, non solo ogni creatura umana, ma anche quella creatura che è l'umanità sacrosanta del Verbo perché l'umanità è creatura, anche nel Figlio di Dio, anche questa umanità, partecipando alla vita del Figlio, vivendo in questa umanità il Figlio di Dio, questa natura umana non può sussistere nel Figlio che morendo a sé. Che cos'è la vita del Figlio di Dio nella sua natura umana se non la presenza dell'atto di morte? Quando si fa presente sopra l'altare per noi, Gesù non si fa presente precisamente in questo atto di morte? Ora che è nel Cielo, nella sua natura umana che cosa vive Gesù se non un morire a sé per vivere in Dio? Beati mortui qui in Domino moriuntur. L'atto della morte non è superato, l'atto della morte non viene oltrepassato: morte e vita in Cristo rimangono elementi indistruttibili di un solo mistero, come in ogni creatura. Perché la natura non può vivere la vita divina che venendo meno a se stessa, che strappandosi a sé, all'egoismo proprio della creatura come tale per vivere questa pura relazione di amore al Padre Celeste.
Qui Spiritu Dei aguntur, hii sunt filii Dei (Rm 8,14)
Mossi dallo Spirito Santo, dunque, docili all'azione di questo Spirito, investiti dalla forza di questo Spirito, che cosa noi vivremo se non un amore che ci strappa a noi stessi? Un amore che ci libera da ogni nostra autosufficienza e ci ordina a Dio? Una vita che implica una morte? Qui Spiritu Dei aguntur, hii sunt fitii Dei. È precisamente perché siamo figli che viviamo la morte. Non viviamo la morte che in quanto siamo figli, perché precisamente questa morte è l'elemento negativo di una vita divina. Dio si fa presente in te strappandoti a te stesso, per ordinarti totalmente a Sé. Pura relazione di amore: ecco che cosa devi essere. Non lo sei perché sei peccatore, non lo sei perché sei creatura. Peccatore, devi morire al peccato; creatura, devi morire a questa legge che ti difende contro l'agape, per vivere anche, vinto ogni peccato, la morte del Cristo, che vive nella sua natura umana la vita del Figlio in questa sua oblazione pura di amore che è la morte di Croce.
Che cosa è dunque morire per noi? Vuol dire amare. Non è altra cosa che questo. Nemmeno la povertà è amata per sé, né la purezza, né l'umiltà: l'umiltà, la purezza, la povertà, non sono che il volto dell'amore, non sono che questo venir meno a noi stessi perché in noi non viva più che il Signore, Lui solo. Tu non sei più nulla. In te e per te tu devi far posto a Dio. Vivere per noi, vuol dire essere il Figlio. E proprio perché per noi vivere vuol dire essere il Figlio, essere il Figlio anche vuol dire non essere più noi stessi, non essere più per noi stessi, non vivere più per noi: non vivere più in noi ma vivere un'estasi eterna di amore che implica eternamente la morte. Il Figlio di Dio vive dall'eternità per l'eternità l'oblazione di Sé al Padre Celeste. La vive non come morte nella sua natura divina, perché la natura divina non ha come legge l'egoismo, ma vive la morte nella sua natura umana: Gesù Crocifisso. Se così la vive il Figlio di Dio nella natura umana che ha assunto, quanto più dovremo viverlo noi questo continuo strapparci a noi stessi per ordinarci al Signore, per non vivere più che davanti al suo Volto! E da figli di Dio, relazione pura di amore, non potremo vivere più che quello che dice qui S. Paolo, il canto della lode infinita, il canto della lode eterna: "Abbà, Padre!".
Rivelatori del Padre
Che cos'è "Abbà, Padre"? La vita religiosa è la testimonianza del Padre. L'unicità di Dio implica un annientamento della creatura. "Nulla resiste tranne il volto di Allah", dice il Corano. La creatura non può sussistere dinanzi a Dio. La proclamazione dell'unicità di Dio implica la distruzione dell'essere creato: Dio non è Uno fintanto che tu sussisti. Dio è unico. Questo per l'lslam. Non così per noi. Anche per te la vita religiosa è la proclamazione di Dio: Dio è. Ma quale Dio se non il Padre? E il Padre come può essere se non in questa relazione del Figlio? Il Padre è soltanto per il Figlio e nel Figlio. in Sé e per Sé non è. Ecco che Dio esige da te la Sua vita, chiede a te di essere. Come senza il Figlio non sarebbe il Padre, così in ugual modo Dio non è senza di te, per te. Sei tu che gli dai vita, è per te che Egli vive.
Pensa dunque quale vita tu devi vivere se devi dare vita a Dio, se devi proclamare con la tua vita il Padre Celeste. "Abbà, Padre!" non è una parola. Sarebbe tanto facile dire "Abbà, Padre". Ma il dire il Padre vuol dire farlo presente, vuol dire far presente la santità infinita di Dio. Proclamazione della santità del Padre fatta dall'uomo: tu devi render presente in te e per te un Altro, il Padre Celeste. Lo puoi fare perché è lo Spirito Santo che ti muove e perché muovendoti lo Spirito, tu sei il Figlio. Non c'è possibilità di una proclamazione della santità del Padre da parte dell'uomo se non è lo Spirito Santo che nell'uomo la proclama. E non vi è possibilità per lo Spirito di proclamare la santità del Padre che in quanto lo Spirito opera in te una certa incarnazione del Verbo, una certa unione col Verbo: ti unisce al Figlio di Dio, ti fa figlio di Dio nel Figlio Unigenito.
E da figlio tu gridi: "Abbà, Padre!". È tutta la vita cristiana. E che cos'è la vita cristiana in queste parole di Paolo? È la vita trinitaria, la vita stessa di Dio. E che cos'è allora la creatura in questa vita trinitaria che si esprime nel testo di Paolo? La creatura è pura condizione a un moltiplicarsi, direi, infinito di Dio in ognuno di noi. Ognuno di noi è soltanto una capacità di accogliere Dio; ognuno di noi è una condizione perché Dio moltiplichi in qualche modo Se stesso, la sua beatitudine, la sua santità, la sua pace. Egli rimane l'unico e pur tuttavia in ognuno di noi vive, così che ognuno di noi lo possiede. Rimane l'unico ed è tutto in tutti. Che cos'è la vita eterna se non il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo? Ed è lo Spirito che vive in te e vivendo in te lo Spirito tu sei figlio. E tu non sei figlio che in quanto tu contempli il Padre, che in quanto lo ami, che in quanto ne proclami la santità. "Abbà, Padre".
Non si è mai soli
Ma ci rendiamo conto di quello che vogliono dire queste parole? E soprattutto, ci crediamo davvero che sia lo Spirito Santo a muoverci? Noi temiamo dei mistici. Noi tanto più temiamo del linguaggio dei mistici indù o musulmani; ma il linguaggio della teologia cristiana, il linguaggio dei testi della Scrittura, non è anche più ardito del linguaggio dei mistici, dei più arditi che il mondo abbia conosciuto? Troppo spesso noi scambiamo lo Spirito Santo coi nostri sentimenti, con quello che è invece il nostro medesimo spirito. Ma se noi possiamo scambiare lo Spirito Santo col nostro spirito, questo errore non ci deve mai indurre a dimenticarci che veramente nella vita cristiana Dio stesso agisce nell'uomo, che nella vita cristiana noi siamo organi di un Dio che agisce attraverso di noi. Quale rispetto, quale riverenza noi dovremmo avere davanti a Dio che opera nell'anima nostra! Come dovremmo sentire la grandezza della nostra povera vita! Non si tratta dei doni dello Spirito, non si tratta di un'azione che può essere più grande, può essere più santa dell'azione onde Dio crea le cose: non si tratta di questo. Si tratta di Dio stesso, che interviene direttamente e personalmente nella tua vita e vive in te, e vive attraverso di te, e opera attraverso le tue stesse potenze, onde tu agisci soltanto in una pura passività di fronte alla sua azione. Agire per ognuno, consiste nel consentire all'azione divina.
Ci rendiamo conto che nella nostra vita due sempre vivono? Nella nostra vita noi viviamo continuamente questa unione nuziale onde il nostro atto è l'atto congiunto dello sposo e della sposa, di Dio e dell'anima che proprio nell'atto di grazia sono ineffabilmente congiunti sicché questo medesimo atto è dell'uno e dell'altro nello stesso modo? Ci crediamo? Quale mistero! Qui Spiritu Dei aguntur. San Paolo ne parla come della cosa più comune, più ovvia: a noi sembra così straordinario! Così incredibile! Dio! Tu non sei solo. L'essere solo per l'uomo è proprio la perdizione. Ma proprio colui che vive solo vive la sua comunione con Dio. Noi siamo davvero soli quando siamo accompagnati, perché mai come quando ci distraiamo perdiamo il contatto con questo Dio che agisce nell'anima nostra. Invece non siamo mai meno soli di quando siamo davvero soli, perché proprio quando siamo soli noi possiamo avere maggiore attenzione e vivere in maggiore abbandono e docilità all'azione dello Spirito Santo che agisce nel più profondo di noi. E non sei mai meno solo di quando sei solo, perché Dio è più intimo a te di te stesso, e proprio quando sei solo ne percepisci l'azione, e proprio quando sei più solo tu ne avverti la presenza segreta: quando proprio sei più solo tu puoi consentire alla sua azione intima e casta.
Renderci conto che precisamente lo Spirito Santo agisce attraverso la nostra vita. Basta che noi consentiamo: non siamo noi che possiamo invocarlo quasi che Egli fosse lontano, quasi che dipendesse dalla nostra preghiera il fatto che Egli venga a noi, il fatto che Egli ci muova. Egli ci muove: anche nella stessa preghiera onde noi lo invochiamo è Lui che agisce. E dunque non abbiamo da fare sforzi per essere investiti dall'azione di questo Spirito. Non dobbiamo aspettarla domani: dobbiamo consentire in questo stesso momento. Ma il consentire all'azione dello Spirito, ricordiamolo bene, non solo ci porta a questo morire a noi stessi, non soltanto ci strappa a noi stessi, a ogni egoismo ma ci fa figli nel Figlio, ci unisce a Cristo, ci fa un solo Cristo. Non solo: ci fa vivere la morte del Cristo. In noi si fa presente Gesù nella sua Morte, in quella purezza di amore, in quella pienezza di amore che Egli ha vissuto quando è stato tratto sulla sommità della croce, per rimanervi per sempre. Oh, vivere la vita dello Spirito! Che cosa abbiamo da perdere se pure questa azione dello Spirito ci porterà a maggiore purezza, a maggiore umiltà? Se pure ci farà discendere negli abissi della povertà? Se pure ci farà discendere in una dolcezza senza fine? Che abbiamo da perdere? Perché non consentiamo? Perché resistiamo alla grazia? Perché non vogliamo strapparci a noi stessi abbandonandoci a Lui?
Dare Dio a Dio
È Dio che entra in noi. Una vita divina si dispiega nell'anima nella misura che noi consentiamo a questa azione divina. Morire per vivere. Morire noi, a noi, perché in noi viva Dio.
Figli di Dio: non è il nostro programma? Si diceva stamani: è la nostra vocazione, questa. Allora la nostra vocazione implica per sé questa attenzione allo Spirito, questa docilità pura allo Spirito, questo abbandono di tutto l'essere nostro alla forza dello Spirito, sicché la forza dello Spirito ci trascini per questa via di umiltà, di semplicità e di amore; per questa via di dolcezza, di purezza divina. Bisogna abbandonarsi a questa azione dello Spirito per morire a noi stessi, per lasciar posto al Signore, perché in noi si faccia presente Gesù, perché noi viviamo nel Cristo, perché il Cristo viva in noi. Allora dunque, figli di Dio, noi non viviamo più che l'atto eterno del Verbo che vive nella eterna contemplazione del Padre, che vive il suo amore al Padre, che vive la proclamazione della santità del Padre. Questo è infatti il Verbo divino, la gloria del Padre. Egli cioè, manifesta, rivela quello che il Padre è. Senza il Figlio nemmeno il Padre sarebbe; è il Figlio che fa presente tutta la gloria del Padre, tutta la sua vita. Senza di te neppure Dio è. Questa deve essere la tua vita: come se senza di te Dio non fosse. E di fatto Dio non è, che in quanto in te Egli vive, che in quanto tu gli hai dato posto nel tuo cuore perché in te Egli si faccia presente. Quale programma! Non sei più tuo. Tu sei, ma sei soltanto per dire il Padre; tu sei, ma sei soltanto per proclamare il Padre. Perché Allah ha bisogno di una proclamazione della sua unicità? Se ne ha bisogno è segno che non è solo. Se veramente è unico e solitario non ha bisogno di una proclamazione. Nel Cristianesimo è il Figlio che proclama il Padre, e il Padre il Figlio; ma dove Dio è soltanto Uno, ogni proclamazione già lo duplica. Perciò, ogni esperienza religiosa implica la Trinità! Anche l'esperienza religiosa di un musulmano, come l'esperienza religiosa dell'indù. Ma tu devi proclamare il Padre, tu, tu, cristiano. lo devo proclamarlo, perché in me vi è il Figlio, perché in me deve vivere il Figlio, perché mosso dallo Spirito io devo essere il Figlio.
È certo che siamo adottati: siamo infatti creature. Ma l'adozione è un'adozione reale: ci fa realmente figli di Dio. E figli noi siamo soltanto nella misura che, dimentichi totalmente di noi stessi, strappati totalmente a noi stessi, morti totalmente a noi stessi non vivremo più che la pura luce della visione di Dio, che la pura visione del Padre. Noi dobbiamo vivere questa vita. Nella misura che la viviamo, lo Spirito Santo stesso renderà testimonianza a noi di vivere questa vita. Nella misura che la viviamo, lo Spirito Santo stesso renderà testimonianza in noi che siamo questi figli. Noi sentiremo di vivere questa vita beata, noi già possederemo questa pienezza di luce, noi già vivremo nella pace di Dio che in Sé ci accoglie. Che cosa fare per questo? Una cosa semplicissima: non c'è altro da fare di quello che dice San Paolo all'inizio dell'Epistola: Si Spiritu facta carnis mortificatis. Il vivere vuol dire per te questo: essere il Figlio ed essere il Figlio non vuol dire che proclamare il Padre. Non c'è altra vita che la vita eterna e la vita eterna, dice San Giovanni nella Prima Lettera, è il Figlio stesso di Dio.
Ogni atto, sia atto «coniugale»
Ecco dunque che cosa vuol dire per te vivere: vuol dire divenire il Figlio, essere il Figlio. Ut sitis filii Patris vestri. E allora se tutto sta in quelle prime parole dell'Apostolo Paolo, che cosa fare? Vivere in un'attenzione dolcissima, pura, allo Spirito che è in te. Vivere ogni istante la tua unione nuziale con Lui: cioè renderti conto in ogni tuo atto che non sei solo a operare o piuttosto: puoi essere solo a operare nella misura che tu sfuggi a questa unione con lo Spirito. Non ti è dato vivere altro. L'uomo è stato creato per le nozze divine. L'essere creato è un essere coniugale, dice Evdokimov. La creatura come tale, nella sua più intima essenza, è un essere coniugale: non vive che nell'istante che si congiunge, non vive che nell'atto della sua unione con lo Spirito per generare il Figlio, per essere il Figlio. In ogni tuo atto non vivere solo, senti di vivere l'unione: non vivi in ogni tuo atto che l'unione con Dio nello Spirito, per lo Spirito, nel Figlio al Padre. In ogni tuo atto tu vivrai dunque, attraverso il consenso di te, il consenso della sposa allo Sposo divino, non vivrai più che la vita eterna incommutabile, immensa, pura, di Dio: la sua pace, la sua beatitudine somma, la sua santità.
Quarta meditazione
Lode alla gloria del Padre

Noi abbiamo cercato di meditare in questo giorno alcuni versetti della Lettera ai romani, abbiamo riconosciuto che questa Epistola dice la nostra vocazione, abbiamo capito che la nostra vocazione è in fondo la vita dei figli: Ut sitis filii Patris vestri. Vivere la vita dei figli in una docilità umile, pronta, allo Spirito di Dio, vivere la vita dei figli per vivere nella lode del Padre, per essere anzi la lode del Padre.
Diverse cose ci sembra di avere, se non capito, intravisto: insegnamenti di ordine spirituale, di ordine metafisico. Dall'Epistola si potrebbe rilevare quello che è la creatura come tale nell'ordine voluto da Dio; di ordine anche teologico. Di fatto, il mistero della vita divina, il mistero trinitario, non si rivela all'uomo che nella economia della comunicazione divina, nella economia cioè di un Dio che si dona al mondo. Il mistero trinitario non si rivela come mistero inaccessibile e trascendente a noi uomini, come rivelazione pura di una verità che non ci tocca, che è estranea alla nostra intima vita: in tanto ci si rivela il mistero della Trinità, in quanto noi stessi siamo introdotti in questo mistero, in quanto questo stesso mistero diviene il mistero della stessa nostra vita interiore. Per lo Spirito Santo, di fatto, noi siamo uniti al Figlio, siamo fatti figli e nello spirito filiale onde siamo animati noi ci ordiniamo al Padre, viviamo la proclamazione della sua santità, siamo la sua lode: Laus gloriae, come dice San Paolo nella Lettera agli Efesini. È il termine che esprime la vocazione di Suor Elisabetta della Trinità: lode alla gloria del Padre, lode degna del Padre.
Vogliamo ora vedere quello che ci dicono i testi della Messa in riferimento alla dottrina di Paolo? Stamani si accennava al rapporto che può esservi tra l'Epistola e il Vangelo, così strano in questa Messa. Si parla di un amministratore, mentre nell'Epistola non si parla affatto né di amministratori né di servi: si parla di figli. Giustamente il servo deve render conto della propria amministrazione; ma proprio questo ci assicura Paolo: che non siamo servi e perciò che non dobbiamo render conto di una amministrazione.
Ma più del rapporto dell'Epistola col Vangelo mi piace considerare un poco il rapporto che vi può essere fra l'Epistola e l'Introito nella Messa di oggi. L'Introito, che la liturgia trae dalla festa della Purificazione di Maria, dice: "O Dio, noi abbiamo ricevuto la tua misericordia in mezzo al tuo tempio. Come è grande il tuo nome, così la tua lode fino all'estremità della terra. Di giustizia è ripiena la tua destra". Nella festa della Purificazione di Maria, è l'umanità che riceve il Figlio di Dio. La misericordia di Dio che è il Figlio, che è il Cristo, la Madre lo depone nella braccia di Simeone. In Simeone è Israele che accoglie Gesù. Primo incontro di Gesù col suo popolo: incontro che è anche il dono che il Padre fa del Figlio suo a Israele. La Madre deve riscattarlo perché ogni primogenito appartiene al Signore, dice l'Epistola della festa della Purificazione. Deve riscattarlo la Madre, ma il primogenito che apparteneva a Dio ora riappartiene alla Madre, riappartiene al popolo d'Israele.
Il dono viene fatto in mezzo al tempio di Gerusalemme. Come è grande il dono di Dio, così è grande la sua lode ora fino all'estremità della terra, perché il mondo ha in Cristo da offrire al Padre una lode degna di Lui, degna del suo nome, una lode che è tale da rispondere all'esigenza della divina santità. Ma quello che nella festa della Purificazione si dice di Gesù, qui indubbiamente si dice di noi. Non è più celebrata la festa della Purificazione: nelle domeniche dopo la Pentecoste vien celebrato invece il mistero dell'azione dello Spirito Santo nella Chiesa di Dio. Il mistero del Cristo diviene il mistero di ogni anima. Quello che prima si è compiuto nel Cristo, ora si compie in ciascuno di noi. Per il medesimo Spirito che un giorno operò la concezione del Figlio di Dio nel seno della Vergine, ora si compie lo stesso mistero nel seno della Chiesa, nel seno di ciascuno di noi. La festa di questo incontro di Dio con l'uomo, di questo dono di Gesù all'umanità, che è la festa del 2 febbraio, diviene la festa del dono che Dio fa di Se stesso a ognuno di noi. E ognuno di noi riceve questo dono in mezzo al suo tempio.
Dove c'è lo Spirito, là c'è la Chiesa
Ecco: prima di tutto mi sembra che sia importante notare quello che l'Introito dice con le prime parole. Nell'Epistola si parla di questa vita trinitaria che trabocca nel cuore dell'uomo per il dono dello Spirito onde per questo dono noi siamo uniti al Figlio di Dio. Questo dono che Dio ci fa di Se stesso l'uomo come lo riceve? Come ciascuno di noi lo riceve? Dove lo riceve? È importante vedere sia il dove che il come, è importante notare come possa avvenire l'incontro di Dio con l'uomo. L'incontro suppone un luogo dove i due si incontrano; e il luogo è il "mezzo del tempio". Dio scende nel tempio di Gerusalemme dove è Simeone. Sei tu che nella Chiesa accogli lo Spirito: non vi è possibilità di ricever lo Spirito se non dalla Chiesa. E giustamente, chiunque lo riceve, se anche visibilmente non fa parte di lei, invisibilmente è dentro di lei, è legato invisibilmente alla Chiesa visibile. Là dove è lo Spirito ivi è la Chiesa, ci dice Sant'Ireneo; perché è lo Spirito stesso che crea la Chiesa, fa di tutti noi il Mistico Corpo del Cristo. La Chiesa si rappresenta, si esprime esteriormente attraverso le strutture che sono proprie di questa Chiesa visibile, ma è l'espressione visibile di un mistero che è compiuto unicamente dallo Spirito. La Chiesa come Mistico Corpo del Cristo è la creazione dello Spirito di Dio. Perciò là dove è lo Spirito ivi è la Chiesa, perciò là dove è la Chiesa ivi è lo Spirito.
Tu non ricevi lo Spirito che vivendo nella Chiesa. Tu accogli lo Spirito soltanto nella misura che vivi nella Chiesa. In medio templi tui. La vita dell'anima cristiana, quanto più quest'anima vive di Dio tanto più è radicata nel seno della Chiesa, tanto più è nel cuore di lei. Sono indubbiamente necessari alla sua espressione visibile gli organi della gerarchia; ma le anime vivono tanto più intensamente nella Chiesa quanto più veramente ricevono lo Spirito di Dio. Possono essere insostituibili della Chiesa visibile il Papa e i Vescovi, ma più anche del Papa e dei Vescovi sono radicati nel seno della Chiesa i santi. L'anima che accoglie lo Spirito, che riceve lo Spirito per esser fatta figlia di Dio, per vivere il mistero di una sua filiazione, per vivere il mistero di un suo rapporto filiale col Padre, quest'anima vive nel seno della Chiesa, è il cuore della Chiesa.
Il contemplativo, ce lo ricorda Santa Teresa del Bambino Gesù, è il cuore della Chiesa. È il cuore che è nascosto, ma per il quale l'organismo medesimo vive. Il capo è visibile, ma non vive che per il cuore. Pensate quello che è il cuore in tutta la teologia veterotestamentaria: non ci dobbiamo rappresentare quello che è cuore e quello che è capo secondo i criteri di una fisiologia moderna, ma secondo quello che è il pensiero dell'ebraismo antico. Il cuore è tutto: è la sede del pensiero, oltre che degli affetti, è la sede della vita. In medio templi tui. Non si riceve lo Spirito che nella misura che siamo in questo centro, che siamo in questo cuore. E per il fatto stesso che ricevemmo lo Spirito, siamo in questo "mezzo" e in questo cuore. Da una parte non si riceve che essendo nel centro; dall'altra parte, ricevendolo, già questo medesimo fatto ci dice che siamo posti nel centro. Il contemplativo è dunque il cuore della Chiesa. Ecco quello che c'insegna l'Introito in riferimento all'Epistola. Abbiamo ricevuto il tuo Spirito, abbiamo ricevuto il tuo dono, la tua misericordia, abbiamo ricevuto Te stesso: nel seno di Dio, in questo cuore; lì avviene l'incontro, lì si consuma l'unione, lì si realizza il mistero per ognuno.
Adozione divina
Quello che segue, è ancora più grande: "Come grande è il tuo nome, così grande è la tua lode fino all'estremità della terra". Si noti: la nostra vocazione non è quella di una nostra salvezza, di una nostra liberazione, di una nostra santità: Ita est laus tua in fines terrae: la nostra vocazione è quella di essere Dio, di far presente nella nostra natura umana tutta la infinita grandezza della divina santità. Certo, se è questa la nostra vocazione, non è detto che noi si esaurisca, che noi si possa pienamente realizzare. Ma questa esigenza divina insiste nell'uomo fintanto che non è realizzata; insiste sempre, fino alla morte. Fino alla morte noi non possiamo dire di averla adempiuta perché secundum nomen tuum ita est laus tua. La Iaus gloriaeche è propria di ognuno di noi, deve essere tale da rispondere all'infinita grandezza divina. Perché giustamente quello che è il Padre tu lo conosci dal Figlio; è il Figlio, dice Sant'Ireneo, la misura del Padre. Se il Figlio fosse inferiore al Padre, il Padre stesso non sarebbe. Quello che è il Padre è il Figlio. Non cercarlo al di fuori. E tu sei figlio e tu devi essere figlio.
Che grande verità è mai questa! Non un'altra santità che la santità stessa di Dio; non devi essere santo secondo una tua misura, ma secondo la misura di Dio. Perché se tu sei figlio, sei tu che proclami il Padre, sei tu che lo riveli, sei tu che lo fai presente. È in te che Egli vive, non fuori di te: fuori di te Egli non è. Se Egli è Padre, vive soltanto nel Figlio; non vive al di fuori del Figlio. Se è Padre vive soltanto per il Figlio, non vive al di fuori del Figlio. E tu sei il Figlio, devi essere il Figlio, indubbiamente. E non puoi esserlo che per lo Spirito Santo. Ma precisamente questa è la tua vocazione: di rispondere in qualche modo all'esigenza di una infinita santità, di adeguare la tua santità alla santità stessa di Dio. Come il Padre, così il Figlio. Però il Figlio è la lode infinita ed eterna, la lode adeguata alla santità del Padre, alla vita del Padre, in quanto è trascendente come il Padre, in quanto vive nella unità di una stessa natura col Padre. Ed è invece questo il mistero della vita soprannaturale: che noi dobbiamo esserlo; non lo siamo per natura, ma dobbiamo esserlo per grazia. E di fatto questo mistero avviene nel Cristo; di fatto questo mistero deve realizzarsi in ciascuno di noi, nella misura che ognuno di noi è chiamato ad essere figlio di Dio. Per adozione, certo; chiamato ad essere cioè a divenire; realmente però, perché questa adozione realmente ci fa anche figli.
Dicevo dianzi, la proclamazione del nome. Si parlava della mistica islamica: tutta la vita religiosa consiste nel dire: Allah è e Maometto è il suo profeta. Parole immense che vogliono dire che Dio solo è Dio. Dio è Dio e il resto non è nulla. Tanto che i mistici hanno detto che la seconda parte della proclamazione è una bestemmia; non deve esser detta perché implica l'eresia dell'associazione, come comporterebbe l'eresia dell'associazione anche, secondo loro, il mistero della Trinità. Dio è Dio. Dio solo: Dio l'Assoluto. Ma perché allora tu lo proclami? Se esige una proclamazione, si esige per qualcuno. Ma una proclamazione della gloria divina avviene già nel mistero della Trinità fra il Padre e il Figlio. È il Figlio infatti che è la proclamazione della gloria del Padre: Egli dice: Padre! E il Padre dice: Figlio! Questa è la loro vita, questo è il loro essere.
Tutta la creazione è per dire Dio
La nostra vocazione chiama, associa in qualche modo tutta la creazione al Figlio stesso di Dio per proclamare la santità divina. Cioè la creazione, è chiamata a far presente Dio. Tutta la vocazione della creazione è quella di far presente Dio, di far posto a Dio. Come il Figlio nel dire "Padre" in qualche modo si eclissa, nel glorificare il Padre in qualche modo scompare, come Egli non è che per dire "Padre", non è che in quanto afferma il Padre, che in quanto glorifica il Padre, che in quanto è la gloria del Padre e fa presente il Padre, così tutta quanta la creazione non è che per far presente Dio. Sant'Antonio, Cassiano, quando ci parlano di una preghiera pura in cui l'uomo in qualche modo non ha più nemmeno coscienza di sé, quando ci parlano di questa mistica, di questa esperienza, ci parlano forse di una distruzione antologica della creatura come tale? No, ci dicono invece quella che è la funzione specifica della creazione, quella che è la vocazione suprema della creazione: quella di far posto a Dio. lo sono per dire Lui; io sono come un vuoto che deve essere da Lui riempito, come capacità che Egli deve colmare. lo sono perché Dio sia. Le parole dell'Eckhart, che non sono state condannate da Giovanni XXII: "che Dio sia Dio io ne san causa", certo sono un po' troppo forti se le prendete alla lettera, eppure sono vere. Per te Dio è nella misura che gli fai posto; per te Dio realmente è soltanto nella misura che tu non sei, che tu ti eclissi per far posto a Lui.
Il vivere è esser figlio. E tu non sei figlio che morendo a te stesso, che venendo meno a te stesso nella povertà, nell'umiltà, nella purezza, in quelle beatitudini che sono precisamente il venir meno della creatura a se stessa per far posto al Signore, perché si faccia presente nella creatura la pura luce, l'infinita luce di Dio, il Regno del Padre.
Suscepimus, Deus, misericordiam tuam in medio templi tui. Viver nella Chiesa, dunque esser nella Chiesa, radicati nel seno della Chiesa, nel più intimo della Chiesa, sentirci veramente cuore della Chiesa. Non vivere ai margini, non vivere all'esterno: sentirci veramente ed entrare nel più intimo di lei perché lì riceveremo lo Spirito e ricevendo lo Spirito noi saremo la lode. È il Figlio la lode di Dio. E la lode di Dio in noi veramente riempirà tutti gli abissi della creazione, come la lode del Figlio di Dio riempie tutta l'infinita vastità della Divinità. La nostra lode è piccina, in verità, però colma veramente tutti gli abissi della creazione; deve colmarli!
Ricordarci che Dio è presente, che Dio è qui. Non son cose che possiamo rimandare a domani. Dio è l'eterna presenza. In ogni tuo atto tu devi vivere questa comunione di amore, questo atto nuziale, onde tu consenti allo Spirito perché lo Spirito t'investa, onde ti abbandoni allo Spirito perché lo Spirito ti possegga, onde ti affidi allo Spirito perché lo Spirito ti fecondi di Sé, perché in te si faccia presente Gesù, perché in te sia concepito Gesù, nasca Gesù e Gesù sia la lode del Padre. E tutta la tua vita non sia più che la proclamazione di Dio Padre, nello spirito dell'adozione a figlio, onde noi chiamiamo "Abbà, Padre".
L'unione nuziale totale
Ecco tutta la vita. Ma per questo, dicevo, in ogni tuo atto devi vivere l'unione nuziale con Dio. Non come vivono l'uomo e la donna: sono marito e moglie, ma quando vivono l'unione nuziale? In alcuni istanti. E anche in quegli istanti lì il dono non è mai pieno; perché proprio in quell'atto vengono sospese le funzioni spirituali, onde di fatto è impossibile il dono: perché quale dono è il tuo se non puoi donare lo spirito? L'atto supremo dell'amore nel piano creato è un atto di umiliazione senza fine. Mentre tu devi vivere ogni tuo atto come atto di unione con Dio, consenso a un'azione divina che entra in te e ti possiede, a un'azione divina che vuole investirti e fecondarti di sé; consenso a un'azione divina che ti feconda perché in te in ogni istante si faccia presente Gesù, il frutto di questa unione e perché nella presenza del Cristo tu sia la lode di Dio, tu possa proclamare non la unicità di Dio soltanto ma la sua santità. E non la santità di un Dio astratto, impersonale, che non ha rapporto con te, ma del Padre perché tu realmente sei figlio in quest'atto.
Come vivere dunque tutto questo? Il consenso è l'amore, è il dono di te allo Spirito. Tu devi vivere in ogni istante il dono totale di te a Dio che anche a sua volta a te si dona, a te si comunica tutto. Di questo dono reciproco e reale il frutto è Cristo: Cristo che vive in te, Cristo al quale tu ti identifichi, Cristo che in Sé ti assume come figlio nel Figlio per farti vivere, per farti essere quello che Egli è, il Figlio stesso di Dio. E allora, per tutto questo che cosa fare? Vivere questo amore in concreto con semplicità, ma senza nulla sottrarre. E soprattutto non dico sottrarre qualche cosa della nostra volontà, ma non sottrarre nulla della nostra fede. Perché quello che sottraiamo a Dio massimamente è la nostra fede. Crediamo, ma fino a un certo punto; crediamo, ma sempre con molte riserve; crediamo, ma con una fede assai languida.
Pensiamo di vivere ora questo immenso mistero che è tutto il mistero della vita soprannaturale! Perché in ogni atto, veramente, è tutto il mistero di Dio. La Chiesa, la Pentecoste, la Morte di Croce, tutta la storia della Chiesa, tutta la storia d'Israele, tutto in ogni mio atto lo vivo, tutto in ogni mio atto si fa presente, tutto in ogni mio atto è realmente presente e vissuto da me. Vivo io tutto questo? Vivendo io il dono dello Spirito vivo il termine di tutto questo disegno divino, ne vivo il compimento. Ma nel compimento sono già incluse tutte le preparazioni, tutte le disposizioni, tutte le condizioni a questo mistero. In ogni atto vivo tutta l'immensa grandezza del mistero divino così come si è svolto nel tempo.
Abbiamo noi fede? Il dono reale di noi stessi a Dio suppone che io mi doni a Dio senza riserve, ma la riserva maggiore che noi facciamo è quella della nostra fede. Crediamo sì, non ci rifiutiamo totalmente alla grazia, ma non ci doniamo interamente a Dio; non ci rifiutiamo totalmente perché, sì, crediamo fino a un certo punto, pensiamo che realmente qualche cosa di grazia agisce in noi, che Dio qualche cosa fa nell'intimo nostro, che non siamo totalmente estranei a questa benevolenza gratuita di Dio. Ma crediamo invece di essere il termine di questa gratuità immensa? Crediamo davvero in ogni istante che tutto Dio si piega verso di noi e a noi si dona? Tutto Dio in ogni tuo istante, in ogni tuo atto! Questo atto tu non lo vivi in preparazione dell'atto onde Egli si donerà a te: ora e qui Egli a te si dona. Semper et ubique. Deve esser pura, grande, immensa la tua lode, perché semper et ubique Egli si dona a te. Vivere questo vuol dire trasformare ogni luogo nell'immensità divina, ogni istante nella pura eternità; vuol dire vivere in ogni tuo atto la vita incommutabile e pura di Dio. Tutto è segno di uno stesso mistero che è la plenitudine infinita di Dio, che è l'immensità pura del suo amore.
Ma ecco, vorrei dirvi questo: che la grandezza di questi misteri non ci abbagli! Non rifiutiamo fede al mistero divino, ma non è necessario averne una consapevolezza piena, che è anche impossibile, in ogni atto, per vivere realmente il mistero. Quello che si impone a noi è vivere nell'umiltà della fede e non voler escludere, non voler mai, noi, misurare il dono divino. Vivere nell'umiltà, nella pace. Vivere nel silenzio interiore, vivere nell'abbandono alla grazia.
Umiltà, raccoglimento, pace: sono queste le disposizioni di un cuore che accoglie Dio, vive in Lui e lo possiede. Vi saranno indubbiamente nella vostra vita dei momenti in cui certi veli si apriranno e voi vedrete, e voi anche esperimenterete la grandezza del dono, almeno in una certa misura ma normalmente, non è dato viverlo sempre con la stessa intensità.

Sem comentários:

Enviar um comentário